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1. Quadro teorico della ricerca

2.2 Chi erano i Gastarbeiter

I Gastarbeiter nascevano con il nome di Fremdarbeiter, lavoratori stranieri. Essi infatti non erano solo di origine italiana. Tra il 1960 e il 1968, la Germania aveva stretto accordi con Grecia, Marocco, Spagna, Portogallo, Tunisia, Turchia e con l'allora Jugoslavia per importare forza lavoro o Ausländische Arbeitskräfte.92 Tali lavoratori avevano in comune un basso o nullo grado di istruzio-ne, disoccupati in patria, per lo più uomini di età compresa tra i venti e i quarant’anni. Un elemento importante per tali lavoratori stranieri, secondo la politica migratoria tedesca, consisteva nel fatto che essi dovevano restare “ospiti”, non divenire immigrati. Per questo la durata del soggiorno dipendeva dalla durata del visto lavorativo. Tale concetto si esprimeva attraverso il

90 “Con il termine Migrationshintergrund ci si riferisce a tutti coloro che dopo il 1949 sono emigrati nei territori che appartengono all'odierna Repubblica federale tedesca, tutti gli stranieri nati in Germania e tutti coloro che posseggono la cittadinanza tedesca dalla nascita con almeno un genitore straniero emigrato o nato in Germania”. Traduzione di chi scrive.

https://www.destatis.de/DE/ZahlenFakten/GesellschaftStaat/Bevoelkerung/MigrationIntegration/Migrationshintergrund/

Aktuell.html

91 http://www.angekommen.com/italiener/Lexicon/FluechtlingeUndVertriebene.html

92 Per un approfondimento sul tema della scelta delle denominazioni Fremdarbeiter, Gastarbeiter, Ausländische Arbeitskräfte si confronti Rieker (2003: 64).

Rotationsprinzip,93 il quale prevedeva appunto la durata iniziale del visto di lavoro per un solo anno, durata flessibile sulla base delle decisioni delle autorità. Queste ultime, in tal modo, esercitavano pieno controllo sui migranti.

Per quanto riguarda l'Italia, come abbiamo già potuto osservare, fino agli anni Novanta circa, più o meno fino alla caduta del muro, la manodopera che veniva richiesta dalla Germania proveniva prin-cipalmente dalle regioni del Sud-Italia, possedeva un basso grado di istruzione, era tendenzialmente dialettofona.

Nonostante la riforma agraria e l'introduzione della Cassa per il Mezzogiorno,94 strumenti volti a ge-nerare lo sviluppo economico anche nelle regioni del Sud-Italia, tali regioni rimarranno economica-mente e socialeconomica-mente depresse.95 Martini (2001: 55) prudentemente riconduce le cause di tale insuc-cesso al ritardo con cui le riforme presero il via e all'estrema burocratizzazione del sistema. Ai gio-vani meridionali non restò dunque altro che partire. L'emigrazione dei giogio-vani disoccupati per i go-verni italiani succedutesi nel tempo rappresentava, secondo Pichler (1992: 5), un “Sicherheitsven-til”, una vera e propria valvola di sicurezza che arginava il malessere sociale, impedendo conflitti civili, anche in Martini (2001: 58) si legge: “(...) die politisch und sozial Unzufriedenen sollten nach dem Willen der Regierung besser das Land verlassen” (secondo la volontà del governo, coloro che erano insoddisfatti delle condizioni politiche e sociali, avrebbero fatto meglio a lasciare l'Italia).

Il governo italiano del tempo, guidato da De Gasperi, non faceva certo mistero di tale politica, anzi il Presidente del Consiglio incitava pubblicamente il suo stesso popolo ad andarsene, ad imparare un'altra lingua, per raggiungere nuovi orizzonti. Durante il terzo convegno nazionale della DC (De-mocrazia Cristiana), tenutosi a Venezia tra il 2 e il 5 giugno 1949, si legge chiaramente la necessità dell'emigrazione e sprona il collega, allora Ministro dell'istruzione, Guido Gonella96 a inserire le lin-gue straniere nel sistema scolastico italiano, affinché gli italiani potessero fin da subito prepararsi all'emigrazione. Stiamo parlando degli stessi giovani il cui obbligo di istruzione era previsto fino ai 14 anni, in scuole statali, ma estremamente elitarie. La maggior parte dei bambini provenienti da classi modeste, per lo più dialettofone, infatti, non frequentava nemmeno il ciclo elementare, nono-stante la legge costituzionale del 1948 prevedesse l'obbligatorietà scolastica per i primo otto anni di scuola. Prepararli per affrontare l'emigrazione, inserendo le lingue straniere ed “adattando l'istruzio-ne a tale progetto”, nonostante sembri sensato, considerando il quadro sociale di quegli anni, risulta

93 Pagenstecher (1994: 29).

94http://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?

atto.dataPubblicazioneGazzetta=1950-09-01&atto.codiceRedazionale=050U0646&elenco30giorni=false, Gazzetta Ufficiale 01/09/1950, n. 200.

95 Cfr. Pichler (1992: 5-7).

96http://storia.camera.it/governi/v-governo-de-gasperi/Ministero%20della%20pubblica%20istruzione

retorico se considerato a breve termine. Di seguito si osservino infatti le percentuali della popola-zione rispetto al grado di istrupopola-zione:

Grafico 1. Relazione tra titoli di studio e popolazione tra gli anni 1951-2001

Come si può notare la maggioranza della popolazione italiana tra gli anni Cinquanta e Sessanta pos-sedeva la sola licenza elementare e molti, una media del 30%, non avevano alcun titolo di studio. In questo panorama la preparazione linguistica in una lingua straniera sembra dunque difficile.

Si consideri inoltre che il grado di istruzione non veniva censito regolarmente in quanto la percen-tuale di analfabetismo era troppo elevata da non permettere la compilazione del questionario. Nel 1951 si chiedeva di mettere il grado di istruzione più elevato in un campo libero ed anche il proscio-glimento elementare veniva accettato (terzo anno della scuola primaria). Nel 1961, invece, il grado di istruzione minimo corrispondeva al quinto anno delle scuole elementari. Coloro che non l'aveva-no perseguito venival'aveva-no indicati come alfabeti senza titolo di studio.97 Gli emigranti italiani erano dunque impreparati a livello pratico e teorico, ma non vedevano altro sbocco per il proprio futuro, che lasciare l’Italia. Generalmente si trattava di giovani uomini, perché alle donne, in particolare del Sud, non era concesso lasciare il paese senza essersi prima maritate. Per lo più i matrimoni, special-mente per la donna, venivano arrangiati dalla famiglia e avvenivano tendenzialspecial-mente tra compaesa-ni di uguale estrazione sociale. Talvolta gli stessi uomicompaesa-ni emigrati tornavano al paese per sposarsi con una concittadina o, almeno, con una donna della stessa regione. In questo caso il matrimonio veniva combinato tra l'uomo e un familiare maschio della futura sposa, alla quale non rimaneva che accettare l'unione matrimoniale l'anno successivo, non conoscendo il proprio futuro marito, se non

97 Cfr. http://www3.istat.it/dati/catalogo/20120118_00/cap_7.pdf

di vista.98 Talvolta per queste donne l'emigrazione ha rappresentato la via per sfuggire a una realtà sociale patriarcale e soffocante. Una parte di loro, ad esempio, iniziò a lavorare fuori casa, raggiun-gendo una certa indipendenza economica dal marito. Il controllo demografico era un punto fonda-mentale.99 Andando a lavorare entrambi i coniugi, il numero dei figli o diminuiva, oppure, come capitò ad una nostra famiglia di intervistati di origine siciliana, si riportavano i figli in Italia, in collegio, presso ordini religiosi. Durante le festività i bambini venivano mandati dai familiari ri-masti in patria, nel caso ce ne fossero di disponibili.

In Germania la vita dei lavoratori italiani, così come quelle dei Gastarbeiter in generale, era gene-ralmente dura, soprattutto prima dei ricongiungimenti familiari.100 In fabbrica essi godevano sulla carta degli stessi diritti dei lavoratori tedeschi, ma in pratica non era consentito loro nessun avanza-mento di carriera e, una volta finito il lavoro, rimanevano isolati nei villaggi-baracche per loro esclusivamente costruiti. Talvolta, per gli alloggi dei Gastarbeiter, venivano addirittura utilizzate le baracche impiegate durante la guerra per i prigionieri e i lavoratori forzati (Zwangsarbeiter).101 Es-sendo considerati lavoratori a tempo, attraverso l'applicazione del principio di rotazione, la Germa-nia infatti non doveva investire in strutture di valore sociale quali scuole, corsi di lingua, teatri, etc....Tuttavia, furono proprio gli industriali a ritenere il principio di rotazione improduttivo, in quanto essi dovevano continuamente insegnare il lavoro ad una nuova squadra di lavoratori, rallen-tando il processo di produzione. D'altro canto, anche i lavoratori preferivano prolungare la loro per-manenza al fine di accumulare un capitale economico maggiore.102