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An Unexploited Arbitrage Margin on the Italian Rendita in Paris?

Tattara, Giuseppe

1 April 2002

Online at https://mpra.ub.uni-muenchen.de/10778/

MPRA Paper No. 10778, posted 01 Oct 2008 17:03 UTC

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RIVISTRA DI STORIA ECONOMICA,a.XVIII,n.1,aprile 2002: 51-63.

GIUSEPPE TATTARA

Un margine di arbitraggio non sfruttato sulla Rendita Italiana a Parigi ?

Diversi articoli recenti hanno attirato l’attenzione degli studiosi sulle connessioni che, a partire dall’ unità d’Italia fino alla prima guerra mondiale, hanno tra loro strettamente legato i prezzi della Rendita Italiana all’interno e all’estero con il tasso di cambio della lira. Si tratta di temi di grande interesse e di notevole complessità sui quali vorrei riportare l’attenzione dei lettori della Rivista. Credo che si potrebbero utilmente distinguere tre problematiche: 1. L’andamento del prezzo della Rendita Italiana nei diversi mercati e la sua relazione con il cambio. 2. L’arbitraggio tra la Rendita in Italia e all’estero, segnatamente a Parigi. 3. I flussi di capitali in entrata e in uscita in Italia e le loro connessioni con i due punti precedenti.

Per svolgere il mio ragionamento prendo spunto dall’arti colo pubblicato sull’ultimo numero di questa rivista da Paolo Di Martino. i Si tratta di un lavoro di notevole impegno e le mie puntualizzazioni desiderano illuminare alcuni aspetti che sono rimasti ai margini, in un modo che spero costruttivo, e allo stesso tempo vorrebbero ridiscutere alcune affermazioni che si trovano in un lavoro che ho scritto assieme a Mario Volpe, e in un articolo seguente. ii

I problemi evidenziati ai tre punti precedenti, sono stret tamente connnessi e appaiono in qualche modo sovrapposti nella lettura del saggio di Paolo Di Martino.

Ognuno di essi merita tuttavia considerazioni autonome e indipendenti e mi propongo, in questa breve nota, di discutere separatamente il problema dell’ andamento delle quotazioni della Rendita nel tempo, dell’arbitraggio e dei flussi dei capitali.

I corsi della Rendita a Parigi e a Milano sono variati in mo do marcato nel periodo di tempo che va dall’unità di Italia alla prima guerra mondiale e tali oscillazioni hanìno rifles-

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so la valutazione che il nostro paese ha ricevuto dagli investitori stranieri sul mercato internazionale dei capitali. Tutto ciò ha nulla a che vedere con il fatto che le variazioni dei prezzi della Rendita nei due mercati siano state tali da consentire agli arbitraggisti di vendere (acquistare) i titoli della Rendita sul mercato interno e acquistarli (venderli) sul mercato estero, ottenendo un profitto di arbitraggio. Ha nulla da vedere con il fatto che i prezzi registrati dalle quotazioni di borsa abbiano consentito di rilevare un margine di arbitraggio non sfruttato, anche se questo fosse esistito. L’apertura di un margine di arbitraggio non sfruttato poteva solamente dipendere da qualche ostacolo introdotto alla libera circolazione dei capitali e dalla efficacia di tale ostacolo nel limitarne il movimento, ma non poteva dipendere in alcun modo nè dall’andamento dei prezzi della Rendita nel tempo nè dal tasso di cambio. Se i prezzi di borsa rappresentavano un equilibrio di portafoglio per gli investitori che potevano acquistare la Rendita sia in Italia che in Francia, cosa di cui sono convinto, il loro andamento non era immediatamente collegabile al movimento dei capitali verso l’Italia o fuori dall’Italia.

1. L’andamento del prezzo della Rendita Italiana nei diversi mercati.

Su questo punto Paolo Di Martino scrive delle considera zioni estremamente interessanti e documentate. Egli dimo stra come la fiducia degli operatori internazionali fosse andata scemando già nella prima metà degli anni ottanta, dopo il ritorno alla convertibilità.

Successivamente, dal 1887 al 1893, si era verificato un ulteriore peggioramento del corso del consolidato che rifletteva la crisi economica interna, caratterizzata da una politica monetaria eccessivamente espansiva, la rottura dei rapporti commerciali con la Francia, il restringersi del mercato internazionale dei capitali. Ciò aveva determinato una caduta del prezzo della Rendita e un innalzamento del tasso di interesse che rappresentava un aumento del rischio paese nei riguardi dell’Italia (Di Martino, p. 13). In altre parole, ogniqualvolta gli investitori internazionali si mostravano più titubanti circa la solvibilità del debito italiano richiedevano, per acquistare i relativi titoli, un tasso di interesse maggiore.

iii La ridotta solvibilità era da intendere in senso ampio e comprendeva le attese di una futura tassazione sulla Rendita,

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la possibilità di manovre discriminatorie da parte del governo tra le diverse categorie di sottoscrittori e simili provvedimenti volti a ridurre il rendimento netto dell’investimento o a rendere più complesse le negoziazioni dei titoli. Nel descrivere la caduta del prezzo della Rendita nel corso degli anni, Di Martino porta molti e interessanti esempi relativi all’azione svolta dalle banche e dal governo, che risultarono pregiudizievoli o favorevoli al prezzo del titolo.

Che la riduzione della fiducia degli operatori internazionali si sia associata a un indebolimento del cambio è poi del tutto ragionevole e suffragato dall’evidenza empirica: i motivi che stanno alla base delle due relazioni sono in larga misura comuni. Si tratta tuttavia di variazioni che, nell’insieme del periodo esaminato 1883-1893, si mantennero entro valori molto modesti. Un’ampia analisi di questi temi ci è stata fornita, alcuni anni fa, da Elio Cerrito. iv

2. L’arbitraggio tra la Rendita a Roma e a Parigi L’acquisto e la vendita della Rendita tra operatori di diverse nazioni avveniva con il passaggio di mano del titolo, di massima al portatore. La Rendita 5% al portatore rappresentava la maggior parte del debito pubblico italiano. Il pagamento degli interessi che era fatto in oro all’estero, avveniva in oro anche sulla Rendita tenuta in Italia, purchè venissero inviate all’estero le cedole per la riscossione: il rendimento era quindi il medesimo anche in presenza di un deprezzamento della valuta nazionale. La Rendita in Italia e la Rendita all’estero erano sostituti perfetti e dovevano essere scambiati allo stesso prezzo, per la legge del prezzo unico. Per questa ragione ai prezzi a cui venivano scambiati i titoli non si poteva avere un margine di arbitraggio non sfruttato, anche se era proprio l’esistenza della possibilità di arbitraggio che consentiva alla legge del prezzo unico di materializzarsi. Nel nostro caso la possibilità di arbitraggio, e cioè la libera circolazione della Rendita nei mercati internazionali dei capitali, forzava i prezzi spot della Rendita in Italia e in Francia e il tasso di cambio tra le valute dei paesi in oggetto a porsi in una relazione di equilibrio, tenuto conto dei costi di transazione, di informazione e di tutti i tipi di costo connessi all’acquisto o alla vendita del titolo.

Ricorriamo ad un esempio. Consideriamo una Rendita del

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valore nominale di 100 lire, quotata in franchi francesi a Parigi nel luglio del 1889, a 93.76 (Di Martino, Appendice); alla stessa data il cambio della lira era di 100.55 con un deprezzamento della lira del 0.55% sulla parità. Il prezzo della Rendita a Roma, per avere una assoluta parità (zero arbitraggio) avrebbe dovuto essere 94.27, che si otteneva dal prodotto 93.76*1.0055. La quotazione di borsa era invece di 94.52. Era conveniente comperare la Rendita a Parigi e rivenderla a Roma? Non direi. La differenza tra i prezzi era limitata allo 0.26%

che era un valore inferiore alle spese relative a un’operazione di acquisto o di vendita di questo genere.

La vendita o l’acquisto della Rendita a un corrispondente francese era effettuato attraverso un intermediario e ogni qual volta la Rendita veniva acquistata o venduta sul mercato estero si doveva pagare una commissione che era dello 0.10-0.125% v alla quale si doveva aggiugere un bollo annuale, il cui ammontare variava tra lo 0.12 per la Rendita al portatore e lo 0.15-0.30 per la Rendita nominativa. vi La commissione si riduceva al crescere del numero delle transazioni effettuate e dell’ammontare trasferito. In più vi erano i costi del telegrafo, che erano rilevanti anche se venivano riducendosi al trascorrere degli anni, e i costi relativi al rapido recupero delle informazioni circa l’andamento del mercato estero. Nel complesso, tenendo presenti in modo approssimato gli oneri fissi, i costi di transazione potevano essere considerati non inferiori allo 0.40 – 0.50% del valore del titolo, un livello che non pare particolarmente elevato, nemmeno per gli standard attuali. vii

Alla fine, tutto considerato, ± 0.5% possano essere considerati come i due limiti, inferiore e superiore, che delimitavano la banda di arbitraggio, costruita appunto attorno alla differenza tra i prezzi della Rendita a Parigi e a Roma, espressi nella stessa valuta di riferimento. In altre parole ogni qual volta la differenza tra i prezzi nelle due piazze, espressa nella stessa moneta, eccedeva lo 0.50% si sarebbe avuta la convenienza all’arbitraggio.

Entro tale banda di oscillazione no. Questi erano i gold points del cambio della lira.

Nel caso di prezzi che escono dalla banda di oscillazione si parla correntemente di margine di arbitraggio non utilizzato o sfruttato, nel significato che, dati quei prezzi di borsa, gli operatori avrebbero potuto fare profitti di arbitraggio che non ritennero di fare, e ciò richiede una qualche spiegazione.

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O si era in presenza di ostacoli giuridici alla libertà dei movimenti dei capitali, o i loro flussi venivano di fatto scoraggiati, viii o gli operatori erano incerti sul da farsi temendo che si sarebbero potuti frapporre ostacoli alla conclusione delle transazioni valutarie. Il lettore sa comunque che i prezzi di chiusura di borsa (qui la media semplice tra il massimo e minimo giornaliero) non rispecchiano i prezzi effettivi delle contrattazioni e quindi quando si calcola la parità di arbitraggio al prezzo medio di borsa si compie una inevitabile approssimazione; alcuni commentatori notano tuttavia che il prezzo medio era usato con una certa frequenza sia dai venditori che dagli acquirenti che desideravano evitare di acquistare al prezzo massimo e di vendere al prezzo minimo. ix

Chiediamoci allora se, nel nostro periodo, ci siano episodi significativi in cui la differenza tra i prezzi della Rendita abbia superato la banda di oscillazione di ± 0.5%.

Pochi, mi sembra. Dai dati che Paolo Di Martino riporta in appendice, si evincono sei o sette episodi di

‘sconfinamento’ su 108 rilevazioni mensili in relazione ai quali si ptrebbe parlare di profitti di arbitraggio non utilizzati, a partire dal 1884.1 fino al 1893.12. Un numero del tutto insignificante, considerato oltretutto che i dati non sono quelli che sarebbero necessari per fare questo tipo di analisi. Probabilmente i casi di sconfinamento sarebbero maggiori con dati giornalieri, ad esempio quelli riportati in Di Martino alla tabella 4 di pagina 20 o quelli da me calcolati per lo stesso periodo per il quale Di Martino pubblica i dati mensili (1883- 1893). Non è chiaro d’altronde quali dei due tipi di dati approssimi meglio la realtà; anche operando con prezzi giornalieri lavoreremmo sempre con dati medi, non cioè con i dati della effettiva contrattazione ma con un prezzo fittizio calcolato come la media semplice del prezzo massimo e del prezzo minimo rilevati nella seduta di borsa (Fig. 1A e 1B).

Ben inteso esiste una documentazione coeva che sottolinea la convenienza a fare arbitraggi in alcune situazioni specifiche, ma si tratta di fenomeni limitati che tendono subito a chiudersi. x

Ma chiediamoci ora se l’acquisto o la vendita della Ren dita fosse l’unico modo con cui si poteva fare arbitraggio sui due mercati, quello interno e quello estero. La risposta è no. Si poteva anche operare con il trasferimento dei coupon. Infatti coloro che detenevano la Rendita in Italia potevano recarsi a Parigi e riscuotere l’interesse in valuta, 5 franchi francesi annui per cento lire di valore nominale, presentando la

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Figura 1a. Differenza percentuale tra il prezzo mensile della Rendita Italiana a Parigi e a Roma, entrambi in lire. 1.1883-12.1893.

-1,5 -0,5 0,5 1,5

1883.1 1884.1 1885.1 1886.1 1887.1 1888.1 1889.1 1890.1 1891.1 1892.1 1893.1

Fonte: Paolo Di Martino. Appendice statistica.

Figura 1b. Differenza percentuale tra il prezzo giornaliero (giovedì) della Rendita Italiana a Parigi e a Roma, entrambi in

lire. 5.1.1883-29.12.1893.

-1,5 -0,5 0,5 1,5

5-gen-83 4-gen-84 2-gen-85 1-gen-86 31-dic-86 30-dic-87 28-dic-88 27-dic-89 26-dic-90 25-dic-91 23-dic-92 22-dic-93

Fonte: ns. rilevazioni da Il Sole e da Cours Authentiques (Borsa di Parigi), anni vari.

cedola all’intermediario abilitato a ciò. La cedola semestrale della Rendita Italiana al portatore poteva indifferentemente essere presentata per l’incasso sul mercato interno, diciamo a Roma, il lire, o a Parigi, in franchi francesi. xi In assenza di ostacoli al movimento dei capitali, il rendimento sulle due piazze doveva es

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Figura 2. Rendita al portatore e titoli del debito pubblico incassati all'estero sul totale relativo. 1.1880-12.1895.

0 10 20 30 40 50 60 70 80 90

1880.1 1881.1 1882.1 1883.1 1884.1 1885.1 1886.1 1887.1 1888.1 1889.1 1890.1 1891.1 1892.1 1893.1 1894.1 1895.1

Portatore Complesso Fonte: Ministero del Tesoro (anni vari)

sere eguale: la cedola incassata a Parigi in franchi francesi, o perchè presentata da un investitore estero o perchè laggiù inviata da un investitore italiano, doveva essere eguale alla cedola incassata in Italia in lire, espressa in franchi. Ma questo non accadeva.

Numerosi investitori italiani non si presentarono mai a riscuotere a Parigi anche in presenza di un vantaggio netto, sia perchè ricoprivano una posizione istituzionale che sconsigliava questa pratica, sia perchè la riscossione del coupon a Parigi era variamente ostacolata, poteva essere fatta solo per portafogli di una certa consistenza e aveva un costo. In altre parole, se per alcuni investitori vi era una quasi completa indifferenza tra comperare la Rendita in Italia e incassare la cedola a Parigi, oppure comperare la Rendita a Parigi e incassare colà la cedola, per altri non era così.

Negli anni ottanta molte erano le cedole sulla Rendita Italiana incassate all’estero, specialmente quelle che si riferivano alla Rendita al portatore, che era la Rendita che poteva più agevolmente dar luogo a tali forme di trasferimento (Fig. 2). xii

Guardiamo ai tassi di interesse e consideriamo per un attimo che la sola forma di mobilità consentita nel mercato dei capitali avvenga tramite il trasferimento dei coupon. C’erano piccoli investitori o investitori istituzionali che non sfruttavano la possibilità di inviare le cedole a Parigi per la riscossione in valuta e si accontentavano di un interesse inferiore. Dato che il titolo di credito era sempre il medesimo,

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ciò non dava luogo a una differenza nel corso, ma solo nell’interesse percepito. Alcuni investitori ricevevano meno di altri o perchè detenevano piccoli ammontari e non risultava conveniente inviarli all’estero per la riscossione o perchè il minor interesse percepito era compensato da alcuni vantaggi che li trattenevano dal riscuotere all’estero. Tutto ciò si potrebbe vedere con maggiore chiarezza se noi analizzassimo i periodi di inconvertibilità, in cui la lira si deprezzava e in cui era più vivo il biasimo nei riguardi di coloro che inviavano le cedole all’estero per la riscossione. In questi anni i capitali erano giuridicamente liberi di entrare e uscire dal paese, anche se nella pratica le uscite di capitali andavano incontro a diversi ostacoli e erano variamente scoraggiate.

Assumiamo, sulla base di informazioni coeve, che i costi di trasferimento fossero dello 0.4% all’incirca. xiii Definiamo allora una banda di oscillazione per il differenziale di interesse (Roma via Parigi – Roma) compresa tra 0.0% e + 0.4% del valore della cedola, dove il margine superiore segnava il limite di convenienza nell’effetuare l’operazione di trasferimento dei coupon.

Su questi trasferimenti incidevanono maggiormente i costi fissi e gli arbitraggisti erano sottoposti a notevoli incertezze, dato che il governo italiano interveniva ripetutamente su questo mercato, come accadde con la introduzione dell’affidavit. Questa banda di oscillazione era asimmetrica e positiva perchè un francese, nell’ipotetico caso di un apprezzamento della lira, poteva riscuotere in lire direttamente in Francia senza trasferire il titolo in Italia.

La banda di oscillazione può essere espressa anche attraverso i prezzi, sapendo che l’interesse è eguale al rapporto tra l’interesse nominale e il prezzo del titolo e quindi in qualche modo si sovrappone alla banda di variazione dei prezzi della Rendita di cui abbiamo parlato prima e che riguarda la vendita e l’acquisto del titolo in Italia e in Francia.

Cercando di riassumere questa complicata situazione diremmo che nel mercato della Rendita operano due tipi di investitori e due tipi di arbitraggio. In primo luogo gli investitori nella Rendita di livello internazionale, italiani e stranieri, che percepiscono sostanzialmente lo stesso interesse, a meno dei costi di trasferimento, sui fondi investiti nella Rendita, sia che detengano la Rendita a Parigi e riscuotano colà, sia che detengano la Rendita a Roma e riscuotano a Parigi. Ogni variazione in uno di tali rendimenti comporta immediatamente un riaggiustamento del relativo portafoglio con spostamento di capitali tra Francia e Italia. Poi gli investitori

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interni, che sono meno flessibili e meno pronti all’arbitraggio, ma comunque quando il deprezzamento della lira supera certi margini, non esitano a trasferire le cedole della Rendita a Parigi per l’incasso e, in ultima istanza, abbandonano la Rendita nominale per la più agile e più anonima Rendita al portatore.

In presenza di libertà al trasferimento dei capitali, titoli e coupon, abbiamo quindi la ‘unione’ di due bande di oscillazione quella ‘generata’ dalla legge del prezzo unico e quella ‘generata’ dal possible trasferimento delle cedole, che da un punto di vista puramente astratto, possono essere definite in modo indipendente, ma che nella realtà coesistono perchè sono costruite con riferimento agli stessi valori (interesse interno- internazionale o prezzo della Rendita a Parigi-Roma).

Questa, della asimmetria della banda di oscillazione relativa alle cedole, è una delle ragioni, credo, per cui i valori empirici dei differenziali dei prezzi della Rendita che risultano dai dati riportati da Paolo De Martino non sono centrati sullo zero, ma attorno a un valore positivo dello 0.15%-0.20%, che è un valore che si avvicina alla media della banda di oscillazione 0.0%-0.4%. xiv

3. Cambio, arbitraggio e movimenti dei capitali L’analisi dei dati giornalieri sulle quotazioni di borsa per la Rendita italiana nelle piazze nazionali e estere e la stima dei costi di transazione inducono a ritenere che i valori rilevati dalle quotazioni di borsa siano valori che esprimono un equilibrio di portafoglio, tali da non lasciare margini di arbitraggio non utilizzati. xv E’ quindi impossibile legare ad essi un determinato andamento di flussi di capitali, ossia un incentivo qualsivoglia ad investire. xvi I flussi dei capitali risentono di una molteplicità di fattori; in caso di aumento del rischio paese è probabile che i capitali escano dall’Italia, non perchè vi sono condizioni di arbitraggio non sfruttate ma perchè le previsioni degli operatori possono essere tali da far presagire una perdita futura. Queste considerazioni richiedono una analisi intertemporale e non una analisi di equilibrio statico di portafoglio.

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4. Conclusione

Qual è il senso di tutta questa operazione, apparentemente alquanto complessa? In tutto questo periodo, a giudicare dai dati di borsa, non si è mai avuta una apertura dello spread tra i prezzi della Rendita a Roma e a Parigi, espressi nella stessa valuta, tale da consentire margini di profitto agli arbitraggisti. I pochi episodi di superamento dei margini di banda che vediamo rappresentati alla figura 1 sono episodi isolati, che fanno pensare più a erroneità nei dati o a eventi accidentali (festività o simili) che alla rappresentazione di qualche elemento di rischio dovuto al cambiamento di caratteristiche dei mercati (quali siano poi i fondamentali sui quali parametrare il rischio di un investimento finanziario, resta tutto da scoprire). xvii

Fratianni e Spinelli hanno creduto di vedere nello spread dei prezzi della Rendita nei due mercati, interno e estero, dei margini di arbitraggio non sfruttati, riprendendo un ben noto lavoro di Pantaleoni sulle vicende del Credito Mobiliare. xviii In realtà Pantaleoni voleva dire tutt’altra cosa. Egli sosteneva che, in caso di deprezzamento, sebbene i possessori di Rendita si sentissero al sicuro per via del pagamento dell’interesse in valuta convertibile, questa stessa garanzia avrebbe finito con il gravare sul bilancio pubblico aumentando il rischio di insolvenza del governo italiano sul mercato internazionale dei capitali e ciò avrebbe indotto una caduta dei corsi. xix Cerrito considera a sua volta, limitatamente al luglio del 1893, l’aprirsi di un margine non sfruttato di arbitraggio cui avrebbe fatto seguto un rapido rientro dei capitali. xx L’evidenza empirica, basata sui dati giornalieri, non pare del tutto conclusiva e gli scostamenti che si realizzano nel 1893 possano rientrare, pur con qualche accentuazione, nell’andamento generale segnato dalle oscillazioni dei prezzi del titolo nel corso del perido.

Paolo Di Martino imposta correttamente il problema dello spread tra i tassi esprimendoli nella stessa valuta ma, a mio parere, sottovaluta i costi di transazione e gli elementi di asimmetria nella costruzione della banda di oscillazione della parità di arbitraggio e finisce con l’interpretare come margini di arbitraggio non utilizzati quelli che in realtà sono solo dei modesti costi di transazione. xxi

Se siamo d’accordo sul fatto che le quotazioni di borsa, giornaliere o mensili che siano, esprimono sostanzial men te un equilibrio tra i prezzi dei titoli nei diversi mercati,

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non è possibile istituire tra di esse e il tasso di cambio una relazione di causa effetto attraverso alcuni, presunti, movimenti nei flussi dei capitali. Quando i corsi della Rendita Italiana cedevano a causa di un aumento del rischio paese, è probabile che i capitali uscissero dall’

Italia, ma ciò non si manifestava nella apertura di condizioni di arbitraggio non utilizzate da parte degli operatori. Le condizioni di arbitraggio in un contesto di equilibrio istantaneo sono sempre chiuse e nulla possiamo dire sull’effetto delle variazioni dello spread tra i tassi dell’interesse sui flussi dei capitali.

Considerazioni di questo genere sono ovviamente di estrema importanza ma richiedono di essere svolte sulla base di altri elementi di analisi, di natura dinamica e con un orizzonte intertemporale ben preciso nella mente.

i P. Di Martino, “Corso della Rendita e andamenti del tasso di cambio della Lira negli anni del gold standard (1883-1893)”, Rivista di storia economica, n.s., XVI/1, aprile 2001, pp. 3-31.

ii G. Tattara, M. Volpe, "Italy, the fiscal dominance model and the Gold Standard age", in L. Officer, M. Marcuzzo e A. Rosselli (edd.), Monetary standards and exchange rates, London, 1997; G. Tattara, "Was Italy ever on gold ?", in P.M. Aceña e J. Reis, Monetary standards in the periphery. Paper, silver and gold, 1854-1933, London, 2000.

iii Detenere Rendita all’estero poteva comportare il rischio dovuto al timore di possibili discriminazioni tra sottoscrittori nazionali e stranieri, come si era verificato in anni prossimi a quelli qui studiati, con l’introduzione dell’affidavit. Tuttavia il mercato estero era così importante per il collocamento del debito italiano che una azione volta a discriminare nei confronti degli stranieri, che fossse realmente incisiva e lesiva dei loro interessi, sembrava da escludersi.

iv E. Cerrito, “Cambio, ciclo, efficienza, istituzioni: problemi di politica monetaria nell’Italia di fine Ottocento. Appunti su alcune evidenze empiriche”, Rivista storica italiana, 111/2, 1999, 476-527.

v A. Crampon, La bourse. Guide pratique a l’usage des gens du monde, Paris, 1863, p. 21; O. Haupt, Arbitrages et parités. Traité des opérations de banque, Paris, 1894, p. 569.

vi G. Deloison, Traité des valeurs mobilières françaises et étrangères et des opérations de bourse, Paris, 1890, pp. 732, 781, 786-787.

vii Ad esempio come si vede osservando oggi un qualsiasi sito di trading on line. Si tratta, come tutti sanno, di situazioni poco confrontabili; i trading on line hanno oggi costi dello 0.15% circa, riducibili al crescere delle quantità scambiate e questi costi, solo trent’ anni fa, erano più che doppi.

viii Per un accenno, B. Stringher, voce “Affidavit”, in Il Digesto Italiano, 2 (1), Torino, s.d. [1884?].

ix Crampon, La bourse, cit., pp. 27-28.

x In R.G. Avesani, F. Spinelli, “Cambio e politica monetaria e fiscale tra ‘800 e

‘900: un caso di integrazione virtuosa” (in P. Pecorari (ed.), Finanza e debito pubblico in Italia tra '800 e ‘900. Atti della seconda giornata di studio “Luigi Luzzatti” per la storia della Italia contemporanea (Venezia, Novembre 25th, 1994), Venezia, 1995, pp. 99-135), e in Tattara, "Was Italy ever on gold ?", cit., n. 61, sono riportati diversi episodi. In molte di queste situazioni in realtà l’arbitraggio era fondato su di un elemento intertemporale, per quanto limitato.

Si pensi ad esempio a situazioni in cui la Rendita all’estero poteva essere considerata dagli investitori finanziari come più sicura della Rendita all’interno, in quanto non sarebbe stata colpita da provvedimenti limitativi della circolazione (ad esempio non sarebbe stata soggetta all’affidavit) e/o da

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provvedimenti fiscali. In questo caso si dovrebbe parlare di arbitraggio finanziario o risk arbitrage, perchè in realtà l’arbitraggista non comprava o vendeva lo stesso titolo, ma due titoli diversi, apparentemente identici, ma caratterizzati da divesri flussi di rendimenti netti attesi futuri. Ovviamente lo stesso tipo di ragionamento si sarebbe dovuto applicare ove fosse stato discriminato sfavorevolmente il mercato estero, cosa che poteva anche accadere, specialmente se coloro che investivano a Parigi erano cittadini italiani. In questi casi si dovrebbero confrontare i valori attuali dei rendimenti, tenuto conto del diverso grado di rischio connesso al fatto di possedere il titolo in Italia o di possedere lo stesso titolo all’estero. Nel lavoro del 2000 ho stimato il cambio sulla base dei differenziali di interesse nella Rendita tra Parigi e Roma, ipotizzando che tali differenziali nascondessero le attese sulla variazione futura del cambio (currency risk e country risk assieme) e che queste non fossero riflesse interamente nel cambio corrente. I due mercati della Rendita, interno e internazionale erano in qualche modo segmentati. Le stime sono state condotte sulla base di dati annuali che sono poco adatti allo scopo, come è facile capire, e offrono un risultato di larga approssimazione (le altre variabili di quel modello erano rappresentate da dati anuali). La successiva disponibilità di serie complete di dati giornalieri e di dati sui costi di transazione, mi ha indotto a ridimensionare il fenomeno del rischio intertemporale sulla Rendita in Italia e all’estero, poichè ho osservato che quasi tutta la variazione nei prezzi può essere spiegata sulla base della legge del prezzo unico (nonostante la data della pubblicazione questo lavoro era in realtà stato scritto e discusso anni prima).

xi Ministero del Tesoro, Relazione del direttore generale alla commissione di vigilanza sul rendiconto dell'amministrazione del debito pubblico per l’esercizio dal 1 luglio1894 al 30 giugno 1895, Roma, 1896, pp. 122-131.

xii Ibidem, pp.126-127. Su questi temi sia consentito il riferimento a un lavoro ancora in corso: G. Tattara, "Paper Money but a Gold Debt. Italy in the Gold Standard", WP, DSE. Venezia n.99.01, 2000.

xiii Per rendere conveniente l’arbitraggio attraverso l’invio delle cedole per l’incasso, l’interesse a Roma doveva essere inferiore all’interesse a Parigi diviso per il cambio, cui era sommata la commissione. I costi per incassare la cedola a Parigi variavano tra lo 0.15 e lo 0.50% del valore della stessa (Deloison, Traité des valeurs mobilières, cit., pp. 287-294). Questi costi ponevano un limite inferiore al valore dell’interesse all’interno, poichè se l’interesse in Italia fosse stato inferiore a tale limite sarebbe convenuto incassare all’estero. Rifacendoci ai dati relativi all’esempio precedente, l’

interesse a Roma si otteneva dal reciproco del prezzo della Rendita, 5.29% = 5*100/94.52. A Parigi il rendimento era di 5*100/93.76 = 5.33% annualizzato.

Il rendimento per un investitore Italiano che incassava la sua cedola a Parigi era 5.32% = 5*1.0055*100/94.52. Nell’ esempio si sarebbe avuto arbitraggio positivo, che si sarebbe concretizzato nell’invio a Parigi delle cedole per l’incasso, quando il rendimento a Roma fosse inferiore a 5.27, che era il valore che si ottieneva da: 5.32/[1.055(1+0.004)].

xiv La media degli scostamenti, calcolata sulla base dei dati di Appendice pubblicati da Paoli Di Martino, era di 0.15 per tutto il perido. Di Martino sceglie una diversa spiegazione per questo elemento, e considera che le massicce alienazioni della Rendita a Parigi avevano ‘una forza d’urto [...]

probabilmente molto più forte dell’influenza degli speculatori nazionali’ (p.

17).

xv Questa idea era chiaramente espressa sia in Tattara, "Was Italy ever on gold

?", cit., p. 34, ed era alla base del modello costruito in Tattara e Volpe, "Italy, the fiscal dominance model and the Gold Standard age", cit., pp. 242, 245).

xvi L’idea espressa da Marcello De Cecco (“Introduzione” in M. De Cecco (a cura di), L'Italia e il sistema finanziario internazionale, 1861-1914, Roma-Bari, 1990, p. 46) e da Mario Volpe e da me ("Italy, the fiscal dominance model and the Gold Standard age", cit., p. 241) quando affermiamo che ‘gli acquisti e le vendite di Rendita sono gli elementi che determinano il cambio’ va, credo, vista in questo contesto. Non uscirono capitali perchè vi era un margine di arbitraggio non sfruttato, ma perchè la caduta del cambio si associò generalmente a elementi di rischio tali da consigliare gli investitori a disertare il paese; tali uscite erano di grande ammontare, capaci di condizionare sicuramente il valore del cambio. Ogni qual volta sorse il timore che il governo potesse essere indotto a prendere provvedimenti che limitativi della libertà degli investitori, gli arbitraggisti sulla Rendita Italiana abbandonarono il mercato italiano e piantarono le loro tende altrove.

xvii Cerrito scrive, in nota, che "qualche osservazione richiede inoltre la tesi ricorrente secondo cui lo spread tra corso della Rendita sulle piazze nazionali ed estere influisce negativamente sul cambio. Condizione necessaria per tale effetto è che lo spread sia consistente e attivi un rapido e rilevante riacquisto di titoli da detentori esteri [...] In realtà alla fine degli anni ’80 lo spread tra corso interno ed estero per lo più riflette semplicemente il cambio della lira. Lira e rendita sono la stessa cosa semplicemente perchè la Rendita è denominata in lire. La differenza residua, per quanto latamente correlata con le fluttuazioni della lira e coerente con l’ipotesi dell’attivazione di un flusso di arbitraggi appare contenuta" (“Cambio, ciclo, efficienza, istituzioni", cit., n. 52). Poche pagine dopo egli aggiunge che gli arbitraggi sulla Rendita, che si

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concretizzarono nella reimportazione del debito, furono di entità tale da indebolire il cambio (p. 540). A me sembra che da un lato la relazione tra spread (che è sempre misurato ex-post) e cambio non dipenda in alcun modo dalla entità del flusso dei capitali. Il flusso poteva essere zero e lo spread e il cambio erano comunque eguali. Dall’altro è vero che nel luglio-agosto 1893 il margine di arbitraggio non utilizzato si ampliò (ad esempio sui dati di M.

Pantaleoni, "La caduta della società generale di credito mobiliare italiano", Giornale degli economisti, Maggio 1895, pp. 517-587, appendice E) ma ciò indica probabilmente la presenza di un elemento di rischio intertemporale associato alle transazioni, in periodi in cui, sull’onda della crisi, potevano venir presi provvedimenti discriminanti nei riguardi degli italiani che detenevano i loro capitali all’estero. In altre parole la Rendita in Italia e la Rendita a Parigi, nelle previsioni degli investitori finanziari, potevano non offrire più il medesimo rendimento (in ammontare e/o in certezza) e lo stesso titolo quindi, a seconda del mercato dove era collocato, sarebbe stato caratterizzato da un diverso grado di rischio. In diverse parole, data la propensione ad investire, lo spread misurava un diverso grado di rischio legato ai due investimenti e non una ridotta propensione a investire, a rischio immutato. Le spiegazioni di un cambiamento nella propensione ad investire all’estero andrebbero ricercate altrove.

Se così fosse l’arbitraggio non potrebbe più essere studiato attraverso la legge del prezzo unico, ma si dovrebbe optare per un’analisi di arbitraggio finanziario o risk arbitrage. Vedi la precedente n. 10.

xviii

Cfr. M. Fratianni, F. Spinelli, Storia monetaria d’ Italia, Milano, 1991, pp.

220ss.; Avesani e Spinelli, “Cambio e politica monetaria e fiscale", cit., p. 109;

e Pantaleoni, "La caduta della società generale di credito mobiliare italiano", cit.

xix Ibidem, p. 377. Fratianni e Spinelli nella Storia monetaria d’Italia, in una nota, confrontano i prezzi della Rendita a Firenze e a Parigi, assumendo implicitamente che i prezzi fossero espressi nella stessa valuta, senza tener conto cioè della variazione del cambio che in quegli anni era stata sensibile (Storia monetaria d’ Italia, cit., p. 175, n. 38; nuova ed. Milano, 2001, p. 154, n. 40). Nella stessa direzione è la nota 9 di Avesani e Spinelli, “Cambio e politica monetaria e fiscale", cit. C’era ovviamente una apertura dello spread tra i prezzi della Rendita in Italia e in Francia, ove questi fossero espressi in diverse valute, ma ciò non misurava altro che il tasso di cambio.

xx “Cambio, ciclo, efficienza, istituzioni", cit., n. 52 e p. 540.

xxi Di Martino, “Corso della Rendita", cit., pp. 11, 13, 16-17, n. 31.

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