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CULTURA COME CIBO

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Academic year: 2022

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CULTURA COME CIBO

a cura di Beatrice Barbiellini Amidei e Martino Marazzi

CULTURA COME CIBO

€ 28,00

www.ledizioni.it ISBN 978-88-6705-628-6

sione interdisciplinare sulle materie umanistiche nella loro accezione di campo complesso e pratica creativa. Partendo da discipline diverse – dalla filosofia alla letteratura e all’antropologia – e attraverso il dialogo fra letterati di varia estrazione, si propone una prospettiva che incoraggi l’incontro fra “alto” e “basso” e fra cultura d’élite e cultura folclorica.

L’arco d’interessi spazia dai testi della letteratura indiana antica, al Graal di Chrétien de Troyes e alla formazione filosofica offerta al pubblico del Convivio di Dante; dall’affascinante stratificazione dei saperi tradizionali nei Lunari, alle pratiche folcloriche carnevalesche e all’immaginario del Paese di Cuccagna; e ancora dall’utilizzo del cibo come appartenenza negli scritti di emigrati italiani in America, alla sua valenza identitaria nella narrativa angloindiana.

Beatrice Barbiellini Amidei insegna Filologia romanza presso l’Università degli Studi di Milano. Tra i principali ambiti di ricerca sono i cantari, la poesia trobadorica, la let- teratura francese medievale, Boccaccio. Si è occupata di poesia minore del Trecento e di letteratura umanistica. Ha rivolto la sua attenzione all’analisi stilistico-letteraria, tematica, a problemi di interpretazione e di filologia testuale, ai rapporti intertestuali.

Tra le sue pubblicazioni: Libro d’amore attribuibile a Giovanni Boccaccio: volgarizzamento del De Amore di Andrea Cappellano. Testi in prosa e in versi (Accademia della Crusca 2013);

Ponzela Gaia: Galvano e la donna serpente (Luni 2000); Alla Luna. Saggio sulla poesia del Cariteo (La Nuova Italia 1999); Non lasciare l’oro per il piombo. Elementi di intertestualità trobadorica e di critica del testo (CUEM 2003).

Martino Marazzi insegna Letteratura italiana all’Università degli Studi di Milano. È stato Tiro a Segno Professor alla New York University e Fellow dell’Italian Academy presso la Columbia University. Fra le sue ultime pubblicazioni: Amelia. The fate of a signora from Fascism to Ravensbrück, «The Carolina Quarterly», Spring/Summer 2016;

Danteum. Studi sul Dante imperiale del Novecento (F. Cesati 2015); Voices of Italian Amer- ica (Fordham University Press 2012); A occhi aperti. Letteratura dell’emigrazione e mito americano (F. Angeli 2011).

In copertina: Fratelli Zavattari, Banchetto di nozze, Monza, Duomo, Cappella di Teodolinda

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Cultura come cibo

a cura di

Beatrice Barbiellini Amidei e

Martino Marazzi

LEDIZIONI

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dell’Università degli Studi di Milano

diretta da Giuseppe Lozza

10

Comitato scientifico

Benjamin Acosta-Hughes (The Ohio State University), Giampiera Arrigoni (Università degli Studi di Milano), Johannes Bartuschat (Universität Zürich), Alfonso D’Agostino (Università degli Studi di Milano), Maria Luisa Doglio (Università degli Studi di Torino), Bruno Falcetto (Università degli Studi di Mi- lano), Alessandro Fo (Università degli Studi di Siena), Luigi Lehnus (Università degli Studi di Milano), Maria Luisa Meneghetti (Università degli Studi di Mila- no), Michael Metzeltin (Universität Wien), Silvia Morgana (Università degli Stu- di di Milano), Laurent Pernot (Université de Strasbourg), Simonetta Segenni (Università degli Studi di Milano), Luca Serianni (Sapienza Università di Roma), Francesco Spera (Università degli Studi di Milano), Renzo Tosi (Università degli Studi di Bologna)

Comitato di Redazione

Guglielmo Barucci, Francesca Berlinzani, Maddalena Giovannelli, Cecilia Nobi- li, Stefano Resconi, Luca Sacchi, Francesco Sironi

ISBN 978-88-6705-628-6

© 2017

Ledizioni – LEDIpublishing Via Alamanni, 11

20141 Milano, Italia www.ledizioni.it

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotoco- pia, anche a uso interno o didattico, senza la regolare autorizzazione.

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Introduzione

BEATRICE BARBIELLINI AMIDEI –MARTINO MARAZZI

5

Alcune osservazioni sul cibo spirituale nella letteratura medievale (Chrétien de Troyes, Conte du Graal; Dante Alighieri, De Vulgari Eloquentia e Convivio)

BEATRICE BARBIELLINI AMIDEI

7

L’albero del tempo. Astrologia e pronosticazione: forme letterarie e livelli di cultura nell’Italia della prima età moderna

ELIDE CASALI

19

Il cibo come metafora della sapienza: gentilezza e nobiltà, umanesimo e felicità nel Convivio di Dante

ALESSANDRO GHISALBERTI

43

Cosa si mangia nel paese di Cuccagna? Il carnevale e le sue metafore alimentari in una nuova prospettiva antropologica

GIOVANNI KEZICH

61

Il cibo ingrediente delle scritture italoamericane

MARTINO MARAZZI

83

Eleganti compagnie e classificazioni del sapere.

Le goṣṭhī e le kalā del Kāmasūtra CINZIA PIERUCCINI

97

Cibo e modernità: nulla di nuovo. La cultura del cibo nel romanzo indiano contemporaneo

ALESSANDRO VESCOVI

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Introduzione

Questo volume, Cultura come cibo, trae origine dal desiderio di sollecitare un di- battito aperto a piú voci e orizzonti, con interventi che abbiano come tema la centralità stessa della cultura, la metafora cioè della «cultura come cibo», quella stessa utilizzata da Dante all’inizio del Convivio. L’idea è stata quella, un po’ pro- vocatoria, anche di fronte a grandi eventi mediatici e commerciali, e comunque al cospetto di una società sempre piú profondamente assorbita dall’aspetto con- sumistico e talvolta dallo svilimento materialistico della creatività, di ribadire la centralità del fattore culturale. Ci avevano colpito, ad esempio, un ormai lonta- no riferimento di Piero Camporesi al vino come «liquido culturale»,1 o la straordinaria definizione di Galileo che lo definiva poeticamente come «compo- sto di umore e di luce».

I contributi di umanisti e perlopiú (ma non esclusivamente) letterati di di- versa estrazione, esplorano tale possibilità tematica partendo da discipline di- verse, dalla letteratura alla filosofia all’antropologia all’etnografia. Anche in un’ottica che favorisca l’incontro dell’“alto” e del “basso”, di cultura d’élite e cultura folclorica, fra tradizione letteraria del canone e produzione letteraria fuori dal canone.

Sono contributi che ci auguriamo possano stimolare una riflessione in sen- so piú ampio sulle nostre discipline come campo complesso e pratica creativa che – in modalità sempre differenti lungo i secoli – rappresentano un terreno di incontro e di propositiva mediazione fra i piú vari contesti socio-culturali, gli

“istituti” formali dei codici linguistici ed espressivi, e i necessari scarti dell’immaginazione.

L’impronta interdisciplinare delle proposte è stata fortemente voluta, e in- vitava ad assumere il loro apparente eclettismo come indicazione metodologica, al di là – una tantum – di una specializzazione centripeta e tanto autoreferenziale da rischiare di perdere il contatto se non con quel miraggio che corrivamente denominiamo realtà quanto meno con i nostri giovani studenti, per quanto pos- sano ancora resistere alla «veduta corta» dei piú disparati specialismi e monolo- gismi.

Al riparo, dunque e comme il faut, di un Dante oracolare ed enciclopedico, fortemente orientato alla morale, esplorare territori della cultura letteraria e non solo: indagare l’etichetta comportamentale nei testi dell’India antica, o le prati-

1 Il triangolo liquido. Acqua, latte e vino, «Corriere della Sera», 14 gennaio 1990.

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che alimentari simboliche del Carnevale, il nutrimento offerto dal Graal nel Per- ceval, o opere in cui la cristallizzazione del testo si mostra, con tutta evidenza, come debitrice nei confronti di un con-testo polimorfico; testi angloindiani o prodotti da italoamericani in cui la parola scritta – fra ritualità retorica e scatto innovativo – “sa” di parola parlata, ne riflette ancora tanto la logora formulaici- tà quanto la carica improvvisatrice. Oppure sondare i rapporti fra arte e cultura materiale, fra forme culte e prodotti della creatività popolare nei Lunari, fra alto e basso, fra scritto e parlato, fra manufatti delle officine scrittorie e oggetti quo- tidiani.

Operando in senso metaforico – come si addice, avrebbe suggerito Petrar- ca, a chi è dedito all’«arte da vender parolette» – sollecitare ad un’apertura che agisse come analogo omeopatico alla bulimia merceologica ed espositiva, come

“fuga” o “scherzo” critico, e richiamo a quelle istanze produttive che informa- no sia il funzionamento dell’economia sia la concretezza delle pratiche artisti- che. Non a caso Adam Smith, ancor prima dei sentimenti morali, aveva appro- fondito i principi dell’arte retorica.

Nel rispetto della piú piena libertà di ricerca, gli inviti a contribuire a un dialogo scientifico multidisciplinare sono stati indirizzati in particolare a studiosi che nei loro lavori avessero volentieri privilegiato uno sguardo “plurale”, pro- prio per meglio render conto della ricchezza dei fenomeni presi in esame. At- traverso un serrato confronto intellettuale, e quasi già auspicando un seguito a questo dibattito, si è quindi cercato di proporre un’immagine criticamente sti- molante della ricerca nel campo delle discipline umanistiche, intese non come stanche depositarie, ma come viva fonte di interpretazioni sempre nuove su tut- to ciò che è “umano”.

B. B. A. – M. M.

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Alcune osservazioni sul cibo spirituale nella letteratura medievale (Chrétien de Troyes, Conte du Graal;

Dante Alighieri, De Vulgari Eloquentia e Convivio)

Beatrice Barbiellini Amidei Università degli Studi di Milano

1. Tra rito e mito: Chrétien e il cibo che proviene dal Graal

Il tema del cibo spirituale, del nutrimento meraviglioso è pienamente sfruttato da Chrétien de Troyes nel suo romanzo Perceval o Conte du Graal.1 In quest’opera assai saggia, come ha scritto Karl Uitti,2 che l’autore compose negli ultimi anni, forse negli ultimi mesi della sua vita, e che rimase incompiuta a causa della sua morte, il grande narratore della Champagne utilizza quello che dovette essere probabilmente in origine un elemento fantastico presente nella tradizione celti- ca, nella matière de Bretagne, come ricordato da Jean Frappier,3 ossia il calderone o recipiente magico in grado di fornire cibo in modo inesauribile, talismano ap- pannaggio di dei, semidei ed eroi, o anche corno dell’abbondanza noto pure alla tradizione classica greco-latina,4 per elaborare un nuovo mito, la storia affasci- nante di una ricerca segreta che ha molto a che fare, in Chrétien, con la ricerca di sé. Al recipiente del Graal l’autore accosta per primo, originalmente, l’elemento cristiano dell’ostia, ridimensionando quindi come egli è uso fare an- che altrove nelle sue opere gli elementi più fantastici e meravigliosi della materia celtica in favore di una parziale ‘razionalizzazione’, qui anche in favore di un’aura più spirituale e una risonanza più interiore e segreta offerte al suo pub- blico.

Nel celebre romanzo composto tra il 1178 e il 1190 Perceval, l’eroe nice, ingenuo e inesperto cresciuto dalla madre come un uomo selvaggio nella foresta gallese nella speranza di tenerlo lontano dai pericoli della cavalleria, quindi inve-

1. Per un documentato inquadramento delle vicende del mito del Graal anche dopo Chrétien e un primo orientamento critico, cf. ad es. Cardini–Introvigne–Montesano 1998.

2. «Le Conte du Graal, Chrétien’s greatest masterpiece, composed in all likelihood in the last years (or perhaps months) of his life, when the author himself was not far from death, is a hymn to life.(...) The Graal overflows with mystery (...) it is a supremely wise poem» (Uitti–Freeman 1995, 129).

3. Frappier 1978, 292-331; al saggio di Frappier si rimanda anche per diverse interpretazioni sulla leggenda, riassunte dallo studioso.

4. Da ultimo, sostiene l’influenza delle Metamorfosi ovidiane sulla vicenda di Perceval nel romanzo di Chrétien il saggio di Péron 2016; nel libro VIII delle Metamorfosi abbiamo infatti la visita dell’eroe Teseo alla dimora del dio fluviale Achelous, durante la quale, nel corso di un pasto appare il corno dell’abbondanza portato da una ninfa.

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stito cavaliere e via via sempre più consapevole delle regole sociali legate al suo status e della cortoisie e accettato per il suo valore alla corte di Artù si dovrà misu- rare nell’impresa centrale con il mistero del Graal. Ospitato alla reggia del re Pe- scatore, nella famosa scena della sfilata del Graal Perceval infatti vedrà più volte passare davanti a sé durante la cena, ad ogni cambio delle vivande, alcuni ogget- ti circondati da un alone meraviglioso: una lancia la cui punta versa una goccia di sangue, due candelieri, quindi il Graal (nella contemporaneità di Chrétien una scodella, un recipiente ampio e largo destinato alla mensa dei ricchi e solitamen- te destinato a contenere pesci di grandi dimensioni o carni) il quale contiene qui una sola ostia, e infine dietro il Graal un tagliere d’argento (su cui si era soliti tagliare la carne): tutti oggetti che passando davanti al re Pescatore, a Perceval e ai presenti nella sala del castello entrano poi in una stanza adiacente. L’eroe tut- tavia, benché formuli interiormente alcune domande (perchè la lancia sanguina?

a chi è destinato il servizio del Graal?) si tratterrà dal verbalizzarle, per uno scrupolo legato all’insegnamento ricevuto dal cavaliere Gornemant de Goort che lo aveva messo in guardia dal parlare troppo, e qui preso fin troppo alla let- tera dal giovane, che apprenderà solo in seguito di aver fallito (dalla cugina in- contrata nella foresta, e poi ancora dalla fanciulla orribile sulla mula che giunge alla corte di Artù, e di nuovo dallo zio eremita). Gli sarà infatti ripetuto per tre volte che il solo porre quelle domande avrebbe annientato l’infermità del Re Pescatore e la sfortuna e l’infertilità della sua terra.

La tematica dell’abbondanza, della fertilità e della sua mancanza, origina- riamente legata ai calderoni del mito e alle cornucopie che il Graal ripropone e ai miti del rinnovamento delle stagioni percorre del resto tutto il romanzo, ed è sviluppata dall’autore a più riprese, fin dall’iniziale parabola evangelica del semi- natore del Prologo (vv. 1-6)5 e dalla scena della trebbiatura alla dimora della madre di Perceval (vv. 82-84; vv. 305-310), e ancora nel tema della waste land, della terra desolata, che ritorna più volte, nella dimora della madre di Perceval vicina alla gaste forest, presso il reame della bella Blanchefleur di cui Perceval sco- prirà di essersi innamorato a sua insaputa, dove non vi è neppure il cibo neces- sario per il pasto, e che l’eroe libererà dalla sventura, e nelle terre del re Pescato- re; e due volte ricorre il motivo della ferita “tra le anche” subíta dal re Pescatore e dallo stesso padre di Perceval, legato all’impossibilità di regnare e che allude alla perdita della potenza sessuale e della fertilità, parallela a quella della terra.

Il Graal è dunque per eccellenza il simbolo di questo vasto mitologhema dell’abbondanza e della fertilità, ed è una ripresa dell’oggetto-talismano magico e meraviglioso in grado di sconfiggere la mancanza, la povertà e l’infertilità, ma è anche chiaro che Chrétien, giocando contemporaneamente con l’aura mitica

5. II lettera di S. Paolo ai Corinzi, 9, 6: «hoc autem dico: qui parce seminat parce et metat»; cf.

anche il vangelo di Luca, 8, 6-8; Poirion cita anche la sentenza ciceroniana (De oratore): «ut sementem feceris, ita metes».

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di questo antico talismano e con la sua parziale cristianizzazione6 lo rende por- tatore di un cibo7 e un nutrimento spirituale, e non materiale, da paese del Ben- godi:8 appunto con quella sola ostia che esso contiene e che probabilmente al- lude alla caritas, alla Charité, l’amore spirituale e divino posto a tema del romanzo fin dalla lode a Filippo di Fiandra elaborata nel Prologo (vv. 13-59).

Si veda l’entrata del Graal, cosí come descritto dall’autore, caratterizzato da una luce meravigliosa, e tenuto tra le mani da una fanciulla (vv. 3220-3229):

Un graal antre ses deus mains une dameisele tenoit

et avoec les vaslez venoit, bele et jointe et bien acesmee.

Quant ele fu leanz antree a tot le graal qu’ele tint, une si granz clartez an vint, ausi perdirent les chandoiles lor clarté come les estoiles qant li solauz lieve, et la lune.9

[Poi una damigella bella, elegante e abbigliata con gusto, che avanzava con i giovani, teneva un recipiente con entrambe le mani. Quando ella fu entrata là

6. Come afferma Karl Uitti: «Chrétien’s Grail constitutes already the fairly advanced Chri- stianization of an item of Celtic mythology. As far as scholars have been able to determine, the Grail’s capacity to provide abundant nourishment for the saintly recluse relates this household object to Bran’s Horn – the Horn of Plenty. We know moreover that this process of Christiani- zation will undergo further developments in later works concerning the Grail: it will become spe- cifically the Holy Grail; it will assume the (essentially feminine) vaselike shape of a chalice; it will be identified with the receptacle in which Joseph of Arimathea collected the blood of Christ. In short, the Grail will take on characteristics linking it specifically to the celebration of the Eucha- rist. These later developments render explicit what is, in large part, already present in the fun- ctions ascribed to the Grail in Chrétien’s romance. (...) Nevertheless, it is important to remember that in Le Conte du Graal, the Grail is not merely Christianized; it retains much of its Celtic mythological aura, and it applies brilliantly to the motifs of plenty versus famine, of nourishment versus starvation, of growth versus sterility, of sowing and reaping that permeate the romance»

(Uitti–Freeman 1995, 122).

7. Cf. Poirion 1994, 1311: «Et ce cortège fait partie d’une cérémonie, d’un rituel: le repas.

On ne peut mieux reconstituer le rite d’un mythe dont la généralité déborde toute réduction à un culte particulier».

8. Cf. Giovanni Boccaccio, Decameron (Branca), VIII, 3, 9: «(...) in una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salcicce e avevasi un’oca a denaio e un papero giunta; e eravi una montagna tutta di formaggio grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevano che far maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva; e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciola d’acqua.» E cf. anche Giovanni Boccaccio, Decameron (Quondam–Fiorilla–Alfano), 1719-1720 per una schedatura del lessico decameroniano relativo al cibo. Sul tema dei piaceri materiali della pancia e il Paese di Cuccagna, cf. ad es. Cocchiara 1980, 139-187. Per un’introduzione alla cultura alimentare medievale, cf. ad es. Campanini 2016 e 2012.

9.Chrétien de Troyes, Perceval ou le Conte du Graal (Poirion).

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dentro con il recipiente che ella teneva, si diffuse un tale splendore, che le candele perse- ro il loro splendore come fanno le stelle quando si leva il sole o la luna].

E l’attonita reazione di Perceval, che resta silenzioso (vv. 3243-3245):

Et li vaslez les vit passer et n’osa mie demander del graal cui l’an an servoit (...).

[E il giovane li vide passare, e non osò affatto domandare a chi era destinato il servizio del graal (...)].

E si veda infine la spiegazione data a Perceval dallo zio eremita, che lo incorag- gerà a pentirsi della sua mancanza di caritas nell’abbandonare troppo impulsi- vamente la madre provocandone la morte, e lo spronerà a una vita maggior- mente volta alla fede e alla cura dei doveri di una cavalleria altruistica e aperta all’impegno spirituale. Come illustra il racconto dello zio eremita,10 il Graal11 è una ‘cosa assai santa’, e sommamente spirituale colui che ne viene servito da ben quindici anni, in grado di sostenere la propria vita con l’alimento quasi ete- reo di «una sola ostia» (vv. 6417-6428):

Et del Riche Pescheor roi, que filz est a celui ce croi, qui del Graal servir se fait.

Et ne cuidiez pas que il ait luz ne lanproies ne saumons;

d’une seule oiste, ce savons que l’an an ce Graal aporte, sa vie sostient et conforte, tant sainte chose est li Graax;

et tant par est esperitax que sa vie plus ne sostient que l’oiste qui el Graal vient.

10. Vedi anche Mariantonia Liborio in nota alla sua traduzione italiana dell’opera di Chrétien – cf. Chrétien de Troyes, La storia del Graal (Liborio), 241, n. 201 –: «L’eremita fa dell’ostia contenuta nel graal il cibo spirituale da opporre al cibo materiale, lucci, lamprede, salmoni, cibo spirituale che nutre solo il Re Spirituale non il Re Pescatore (Peccatore), impotente e sterile come il suo regno, che si nutre di cacciagione e di altre delizie materiali». Inoltre, rispetto all’espressione «l’oiste qui el Graal vient» che traduce «l’ostia che viene nel Graal», osserva che

«può significare molte cose: l’ostia che ‘è portata nel Graal’, che ‘arriva nel Graal’, ma anche, come ha visto bene Frappier 1956, 63-78, l’ostia che ‘nasce, si crea nel graal’ perché il Graal, come le Continuazioni chiariranno esplicitamente, mette in tavola, produce il cibo che ognuno desidera. È interessante notare le varianti dei mss. R e U che portano del (du) Graal vient.» (Ibid., n.

202).

11. Che a questo punto del romanzo l’editore Poirion scrive con la maiuscola.

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[Quanto al ricco Re Pescatore, credo che sia figlio di colui che si fa servire con il Graal. E non crediate che vi siano dentro lucci, lamprede o salmoni; sappiamo che con una sola ostia che viene portata nel Graal sostiene e conforta la sua vita, tanto santa cosa è il Graal; ed egli è cosí spirituale, che non ha bisogno d’altro, per sostenere la sua vi- ta, che dell’ostia che proviene dal Graal].

Nella sua interpretazione del lavoro di Chrétien, Frappier insiste sulla sua strut- tura a due livelli, a due piani, un piano del visibile e uno dell’invisibile, un piano dell’apparenza e uno della trascendenza, un piano della vita profana e uno della vita spirituale, misteriosa e nascosta.12 E si potrebbe anche notare che in questo episodio centrale del Conte du Graal – in cui come ha osservato lo studioso si legano diversi elementi che compongono un mito di singolare complessità, e che allo stesso tempo è una scena affascinante e intensamente poetica e miste- riosa che dovette determinare del tutto o quasi la grande fortuna letteraria del Graal – troviamo di nuovo la costruzione su due livelli: nel cibo spirituale pro- posto dal Graal e nel cibo materiale del lussuoso banchetto di cui godono il re Pescatore e Perceval.

Come si è visto, il segno distintivo del Graal al suo passaggio è soprattutto la clartez, lo splendore luminoso, la luce che esso pare emanare e irradiare, che viene paragonata allo splendore del levarsi del sole o della luna che annienta la luce delle stelle; allo stesso modo il Graal fa perdere il loro splendore alle can- dele che risplendevano sui candelabri. Chrétien impreziosisce l’immagine anche con un gioco virtuosistico di sonorità creato dai dittonghi, dalle allitterazioni, dalle assonanze, dalle ripetizioni e quasi dalle rime interne: «ausi perdirent les chandoiles / lor clarté come les estoiles /qant li solauz lieve, et /ou la lune» («le candele persero il loro splendore come fanno le stelle quando si leva il sole o la luna»).

Quanto al banchetto ‘profano’, esso viene servito su un’ampia tavola d’avorio tutta d’un pezzo retta da due preziosi cavalletti d’ebano e apparecchiata con una tovaglia bianchissima, e l’autore della Champagne ce lo descrive nella sua abbondanza, nel suo lusso, nella ricercatezza delle spezie e delle vivande (vv. 3280-3289):

La prima portata era una coscia di cervo in salsa densa piccante al pepe. Co- me bevanda non manca vino chiaro e vino forte in abbondanza in coppe d’oro. Davanti a loro un servitore tagliò l’anca di cervo al pepe: l’aveva dispo- sta sul tagliere d’argento e gli presentò i pezzi sopra un pasticcio intero.

Perceval, durante il convito, a ogni cibo che viene portato in tavola vede passa- re e ripassare il Graal, e vorrebbe chiedere a chi esso venga recato ma non osa, e posticipa l’intenzione di porre la fatidica domanda alla mattina dopo, dedican- dosi alla “meraviglia” profana del buon pasto (vv. 3310-3333):

12. Frappier 1978a, 292-317; Frappier 1978b, 332-348.

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Cosí la cosa è rimandata, e si dedica a bere e a mangiare. A tavola non si lesi- na certo sulle vivande e il vino, anzi tutto è buono e saporito: il pasto fu raf- finato ed eccellente. Quella sera, il gentiluomo fu servito di tutti i cibi che si addicono a re, conti e imperatori, e il giovane insieme con lui. Dopo mangia- to, entrambi conversarono e vegliarono, e i servitori prepararono i letti per dormire e della frutta. Ve n’era di molto ricercata: datteri, fichi, noci moscate, pere, melograni, e alla fine elettuari preparati con zenzero d’Alessandria, e pleuris, e stomaticum, e ricostituente, e arconticum. Poi bevvero dei buoni li- quori: vino aromatizzato senza miele né pepe, vino di more e sciroppo chia- ro.

Ma il Graal con l’ostia e il banchetto lussuoso non sono legati solo dal paralleli- smo e dall’analogia tra piano spirituale e materiale, poiché il potere nutritivo del Graal è sottolineato anche dalla correlazione tra il suo passaggio davanti agli in- vitati e le vivande che vengono poste in tavola. E come ha osservato Frappier,13 se pure Chrétien non stabilisce un legame causale tra il passaggio del Graal e l’abbondanza di nutrimenti terrestri, tuttavia questa simultaneità sembra appun- to fare del Graal un produttore sovrannaturale di cibo in abbondanza, e come afferma al proposito Pierre Gallais, il Graal è in questo senso il simbolo della totalità della natura e rappresenta l’insieme dei prodotti della terra e del mare necessari a conservare all’uomo la vita materiale.14

2. Dante e la metafora del convivio come diffusione della conoscenza

Se nella Bibbia, in Proverbi 9, 1-6 troviamo come è noto il convivium Sapientiae, il banchetto allestito dalla Sapienza, che prepara la tavola, e chiama a sé coloro che non sanno (insipientes), ai quali si rivolge affinché vengano e mangino del suo pane e bevano del suo vino aromatizzato («Venite, comedite panem meum, Et bibite vinum quod miscui vobis»), e li esorta a lasciare l’infanzia e a vivere camminando per la via dell’intelligenza,15 vediamo che Dante, nel De Vulgari Eloquentia (1304-1306) e poi nel Convivio (1303/1304-1307/1308), trattati coevi entrambi lasciati incompiuti, associa il suo desiderio di divulgare la conoscenza,

13. Frappier 1972, 202.

14. Gallais 1972, 238.

15. Si veda l’intero brano: «Sapientia aedificavit sibi domum, Excidit columnas septem.

Immolavit victimas suas, miscuit vinum, Et proposuit mensam suam. Misit ancillas suas ut voca- rent Ad arcem et ad moenia civitatis: Si quis est parvulus, veniat ad me, Et insipientibus locuta est: Venite, comedite panem meum, Et bibite vinum quod miscui vobis. Relinquite infantiam, et vivite, Et ambulate per vias prudentiae»; il passo è tratto da Biblia Sacra Vulgatae Editionis.

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il suo impegno nella funzione educativa16 alla metafora del dar da bere agli asse- tati e da mangiare agli affamati.17

All’inizio del De Vulgari, invocando l’ispirazione del Verbo divino, Dante dichiara di voler giovare alla capacità espressiva degli illetterati (I I 1):

(...) volentes discretionem aliqualiter lucidare illorum qui tanquam ceci ambu- lant per plateas, plerunque anteriora posteriora putantes, Verbo aspirante de celis locutioni vulgarium gentium prodesse temptabimus, non solum aquam nostri in- genii ad tantum poculum haurientes, sed, accipiendo vel compilando ab aliis, potiora miscentes, ut exinde potionare possimus dulcissimum ydromellum.18

[(...) volendo in qualche modo illuminare il discernimento di quanti vagano come ciechi per le piazze, completamente disorientati, tenteremo di giovare, ispi- randoci il Verbo dal cielo, al parlare delle genti illetterate; e, per riempire una coppa cosí grande, non attingeremo solo l’acqua del nostro ingegno, ma vi mescoleremo quanto troveremo di più pregiato, desumendolo e compilandolo da altri, cosí da poter poi arrivare a servire un dolcissimo idromello»].

La bevanda offerta da Dante nel De Vulgari Eloquentia, l’idromele, come il vino aromatizzato della Bibbia, è elaborata, esito di una preparazione, e dunque ricca di virtù. Come scrive Mirko Tavoni in una nota al testo:19 «il recipiente in cui Dante riversa gli ingredienti non è una coppa individuale (...) ma il contenitore generale, nel quale l’inusitata bevanda si formerà e dal quale sarà somministrata a tutte le genti.», e in modo analogo l’autore nel suo trattato filosofico in volga- re affermerà di voler apparecchiare un «generale convivio», appunto aperto a tutti.

All’inizio del Convivio, Dante introduce infatti la metafora del banchetto che si prolunga per tutto il primo trattato, e spiegherà il titolo e l’intenzione che muove il suo lavoro, dicendo di essere «fuggito dalla pastura del vulgo» (I, I, 10) e spinto da una piena liberalità affettuosa nel porgere il sapere «alli veri poveri»

(I, I, 9) ossia a coloro che sono miseri e affamati «del cibo della conoscenza» (I, I, 6),20 e assetati della «naturale sete» (I, I, 9), cioè del desiderio di sapere conna-

16. Ricorda «l’urgenza pedagogica (...) talvolta assai forte» di Dante Erich Auerbach in Auerbach 1953, 316.

17. È forse, questo parallelismo, un’ennesima dimostrazione di quella sistematicità di Dante sottolineata da Marco Santagata nella sua Introduzione all’opera dantesca: «Dante ha una mente sistematica, mira all’organicità e alla coerenza» (cf. Santagata 2011, XI).

18. Dante Alighieri, De vulgari eloquentia (Tavoni), 1126-1131.

19. Ivi, 1129-1130.

20. Dante Alighieri, Convivio (Fioravanti). Come osserva il curatore del testo, «che Platone avesse parlato di un banchetto filosofico veniva asserito nel XII secolo non a partire, come ci aspetteremmo, dal Simposio (un testo del tutto sconosciuto per il Medioevo) ma dal Timeo, in cui proprio all’inizio Socrate accennava ad un convito del giorno prima» (Ibid., 102). Come scrive Maria Corti, può darsi che a Dante pervenisse anche l’eco di Onorio di Autun, che nel De animae exilio et patria (PL 172, 1241-46) propone per giungere alla patria di Sapienza un viaggio allegorico attraverso dieci città che rappresentano le sette arti liberali più fisica, meccanica, economia; giunti

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turato agli uomini con cui nel nome di Aristotele si apre l’opera, e cioè della fi- losofia (nelle sue articolazioni della Fisica, della Metafisica, dell’Etica) allestendo per loro una mensa composta dalla vivanda di quattordici canzoni «sí d’amor come di virtù materiate» (I, I, 14), ‘che hanno per argomento sia l’amore che la virtù’, accompagnate dal «pane» del commento21 in prosa volgare, l’esposizione letterale e allegorica che permetterà la comprensione delle canzoni dottrinali.

Senza tale pane «di biado e non di frumento» (I, V, 2) ossia senza tale commen- to in volgare e non in latino, dunque per «similitudine» come dice Dante, di un cereale meno nobile del grano, come orzo, avena o segale, la vivanda delle can- zoni «non potrebbe essere mangiata» (I, I, 11) dai ‘non dotti’, a cui non è agevo- le accostarsi al sapere e alla scienza (Conv., I, I, 10-11):

(...) misericordievolmente mosso, non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata (...) Per che volendo loro apparecchiare, intendo fare un generale convi- vio di ciò ch’i’ ho loro mostrato,22e di quello pane ch’è mestiere a cosí fatta vivanda, sanza lo quale da loro non potrebbe essere mangiata.

Attraverso la scelta rivoluzionaria di utilizzare il volgare, e non il latino della tradizione, in un trattato filosofico, Dante infrangerà il dominio dei chierici, in un vero programma politico-culturale, rendendo accessibile il sapere, la cultura alta, anche agli illitterati, ovvero a un pubblico di non dotti costituito da «prin- cipi, baroni, cavalieri e molt’altra nobile gente, non solamente maschi ma fem- mine, che sono molti e molte in questa lingua, volgari, e non litterati» (Conv., I, IX, 5), porgendo loro un ammaestramento che avesse al suo centro il tema della virtù e della vera nobiltà.

E si noti che alla fine del I trattato, per sottolineare l’importanza e la novità della sua operazione culturale, egli di nuovo adibisca alla diffusione della cono- scenza un’altra metafora legata al cibo, rimandando all’immagine evangelica del miracolo di Cristo nella moltiplicazione dei pani e dei pesci (Ioann., 6, 5-14):23

alla dimora di Sapienza, usando i quattro metodi interpretavivi (historicus, allegoricus, tropologicus, anagogicus) si partecipa al convivio di Sapienza: «In hac domo Sapientia ad se venientibus convivium praeparat, quos variis ac deliciosis ferculis satiat» (1245) (Corti 2003, 105).

21. Cf. anche I, II, 15: «lo pane del mio comento».

22. Il riferimento è alle canzoni dottrinali già composte in precedenza da Dante.

23. Ioann., 6, 5-13: «Cum sublevasset ergo oculos Iesus, et vidisset quia multitudo maxima venit ad eum, dixit ad Philippum: Unde ememus panes, ut manducent hi? Hoc autem dicebat ten- tans eum: ipse enim sciebat quid esset facturus. Respondit eum Philippus: Ducentorum denario- rum panes non sufficiunt eis, ut unusquisque modicum quid accipiat. Dicit ei unus ex discipulis eius, Andreas, frater Simonis Petri: Est puer unus hic qui habet quinque panes hordeaceos et duos pisces: sed haec quid sunt inter tantos? Dixit ergo Iesus: Facite homines discumbere. Erat autem foenum multum in loco. Discubuerunt ergo viri, numero quasi quinque millia. Accepit er- go Iesus panes: et cum gratias egisset, distribuit discumbentibus: similiter et ex piscibus quantum volebant. Ut autem impleti sunt, dixit discipulis suis: Colligite quae superaverunt fragmenta, ne pereant. Collegerunt ergo, et impleverunt duodecim cophinos fragmentorum ex quinque panibus hordeaceis, quae superfuerunt his qui manducaverant» (Biblia Sacra Vulgatae Editionis).

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Questo sarà quello pane orzato del quale si satolleranno a migliaia, e a me ne soverchie- ranno le sporte piene. Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuri- tade, per lo usato sole che a loro non luce. (Conv., I, XIII, 12)

Nell’immagine utilizzata, che riecheggia il panem ordeaceum che Gesù dopo aver sfamato con cinque pagnotte più di cinquemila persone ancora rende sovrab- bondante al punto di riempire dodici cesti con gli avanzi e i frammenti, l’autore ci propone da par suo ancora una declinazione del tema del cibo spirituale, del banchetto straordinario, che allestisce ricchezze inesauribili e sempre rinnovate, che anzi si accrescono in proporzione alla capacità di attingerne e di saziarsene, in modo meraviglioso ed esponenziale. Come afferma Gianfranco Fioravanti:

Cosí il pane orzato simboleggia nel Convivio quella proprietà “miracolosa” che i medievali hanno sempre attribuito al sapere, il crescere quanto più viene condiviso (cf. ad es. la Divisio scientiarum di Arnoul de Provence […]: «Sciencia est nobilis animi possessio que distribuita per partes suscipit incremen- tum»).24

24. Dante Alighieri, Convivio (Fioravanti), 186.

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Riferimenti bibliografici

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Uitti–Freeman 1995 = K. D. Uitti with M. A. Freeman, Chrétien de Troyes revisi- ted, New York 1995.

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L’albero del tempo.

Astrologia e pronosticazione: forme letterarie e livelli di cultura nell’Italia della prima età moderna

Elide Casali

Università degli Studi di Bologna

Dixit autem Deus fiant luminaria in firmamento caeli ut dividant diem ac noctem et sint in signa et tempora et dies et annos, ut luceant in firmamento caeli et inluminent terram et factum est ita.

(Gn, 1, 14-15)

Nel presente contributo s’intende fare il punto dei principali risultati delle ricer- che sulla cultura e la letteratura pronosticante astrologica nell’Italia moderna,1 svolte durante questi ultimi anni da chi scrive e condotte, in prospettiva storico- letteraria, lungo il solco principale di un’attività accademica mirata a dissodare terreni pressoché vergini della storia della cultura, attraverso fonti storico- letterarie e testi ‘non propriamente letterari’. I bisturi dell’indagine scientifica sono stati applicati, infatti, a Iudicii, Pronostici, Discorsi astrologici, Lunari e Almanac- chi, vale a dire i libri dell’anno, del tempo e della pronosticazione astrologica, espressioni della fede alla religio astrorum e specchio della luce delle stelle, che per secoli modellarono i pensieri, segnarono le vite e guidarono le azioni degli uo- mini del Medioevo e dell’età moderna.

Tali studi hanno conosciuto un rinnovato slancio in occasione delle cele- brazioni di eventi importanti per la storia dell’almanacchistica. Hanno ripreso vigore nel 2011, anno del quarto centenario della nascita di Don Antonio Car- nevali da Ravenna (Ravenna 1611-1678), che con i suoi Arcani delle stelle per quarant’anni fino alla sua morte avvenuta nel 1678 dominò, in modo rilevante, il palcoscenico delle rappresentazioni astrologiche del suo secolo.2 Sono rinver- diti nel 2012, per la celebrazione dei 250 del Barbanera, uno degli almanacchi più longevi della storia del genere letterario, ufficialmente riconosciuto come il lunario e calendario ‘italiano’ per antonomasia.3 Si sono vivificati, inoltre, nel 2013, al centenario della pubblicazione, a Roma presso Ripamonti, del libro del

1. La ricerca si è concretizzata nel tempo, oltre che in una serie di saggi, in Casali 2003.

2. È in fase avanzata di preparazione una monografia su Carnevali. Lo studio della ‘libraria’

di Carnevali, come ‘Biblioteca dell’astrologo pronosticatore’, ha fornito il sostegno scientifico alla creazione (compiutasi nell’arco di un triennio secondo un progetto pensato in collaborazione con il prof. Carlo Ceccarelli, bibliografo) di una sezione del fondo antico della Biblioteca Barbanera, conservata presso la Fondazione Barbanera 1762 di Spello (PG), a sostegno bibliografico, storico e tecnico della folta collezione almanacchistica delle ‘Raccolte Campi’.

3. Casali 2012d; Casali 2012e; Casali 2012f; Casali 2012g.

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bibliografo e bibliofilo romagnolo Carlo Piancastelli (1867-1938), Pronostici ed almanacchi. Studio di bibliografia romagnola, dal quale aveva preso le mosse, nei pri- mi anni Settanta del secolo scorso, la ricerca scientifica di cui si tratta in queste pagine.4

L’albero del tempo

Per tempo declinato in senso astrologico s’intende il tempo dispiegato in lunari e calendari che misurano le stagioni, le lunazioni, i giorni dell’anno; un tempo che prende corpo e significato dagli influssi planetari attraverso le pronostica- zioni calcolate secondo le regole e i principi di quella parte della scienza dei cieli che riguarda propriamente l’interpretazione degli aspetti astrali, al fine di anti- vedere gli eventi futuri. Si tratta di una fitta trama di previsioni facilmente indi- viduabile, già a una prima lettura, nella vistosa ‘tessitura’ del testo, dove appaio- no assemblate sotto rubriche a soggetto, secondo una formulazione tematica, topica nel Pronostico più antico, a guisa di griglia compositiva che sopravvive per buona parte del XVI secolo. Gradatamente abbandonata, in seguito alle restri- zioni censorie delle superstizioni e delle arti divinatorie5 verificatesi nell’età della Riforma cattolica, la struttura a rubriche a soggetto viene ridotta a narrazione pronosticante impersonale e generica, cadenzata alle lunazioni. All’interno del calendario lunare, infatti, a ogni fase dell’astro notturno corrispondono le previ- sioni dettate dalle relative disposizioni planetarie. ‘Corretto’ secondo le imposi- zioni delle leggi ecclesiastiche, il Pronostico che si riaffaccia sul mercato editoriale tra Cinque e Seicento viene posto al sicuro entro la struttura lunaristica, che ri- mane fissa sia nel Discorso astrologico seicentesco dotto, sia nell’Almanacco sei- settecentesco nella sua formulazione più divulgativa (solo a partire dal secondo Seicento, sul calendario lunare s’innesta quello solare ed ecclesiastico).6

Applicata al mondo elementare e al microcosmo umano, l’astronomia/a- strologia praticata nella forma dell’astrologia naturale, ossia degli influssi celesti in universale, riguardava oltre che alle inclinazioni della natura umana, alla medi- cina, all’agricoltura e alla meteorologia. Quando veniva esercitata nella funzione dell’astrologia giudiziaria o genetliaca o oroscopia, offriva tutti gli strumenti ma- tematici e ‘giudiziali’ per la formulazione di pronostici in particulare e ad personam sulla base di oroscopi per gli uomini e gli eventi del mondo, i quali sulle pagine dei libri per l’anno nuovo riguardavano la pace, la guerra e i potentati del tem- po. La rivisitazione in senso cristiano dell’antica e pagana scienza della divina- zione astrale da parte dei Padri della Chiesa, dei teologi e dei filosofi del Me- dioevo, tuttavia, se da un lato aveva accolto in toto l’astrologia naturale,

4. Casali 2013a.

5. Casali 2012b.

6. Per le trasformazioni del ‘libro dell’anno’ a stampa dal secondo Quattrocento al primo Ottocento, vd. Casali 2003; Casali 2012c.

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dall’altro lato aveva posto limitazioni all’oroscopia, alla divinazione relativa alle azioni degli uomini, al fine di salvaguardare la dottrina del libero arbitrio. Gran parte della storia della dottrina della pronosticazione astrale, infatti, si snoda tra processi di cristianizzazione e di demonizzazione del sapere astrologico che si rinnovano per secoli.

Nella Divina Commedia, lo stesso Dante, nella rappresentazione cristiana e teologica dell’astrologia medioevale,7 illustra gli aspetti fondanti della diatriba tra determinismo astrale e libero arbitrio, riferita alla dottrina e alla pratica della di- vinazione astrale. Partigiano dell’astrologia naturale, il poeta infernalizza l’oroscopia demoniaca: come tutti gli indovini, gli astrologi giudiziari (primo fra tutti Guido Bonatti, il Princeps astrologorum del Duecento8), i quali coniugavano l’esercizio della predizione del futuro ai principi della magia e della negroman- zia, vengono condannati alle tenebre dell’inferno, alla pena disumana e umilian- te di procedere lentamente piangendo con il capo girato verso le spalle in un lago di lacrime. È la pena attribuita ai peccatori più ‘scellerati’: «chi è più scelle- rato che colui / che al giudicio divin passion comporta?».9 Coloro che osarono insuperbire al punto da aspirare, come Lucifero, alla divina conoscenza, da pro- vare la gioia di predire l’avvenire, sono straziati senza sosta per la legge del con- trappasso da un pianto eterno. Non hanno rispettato le leggi divine che regola- no l’universo: non hanno saputo ascoltare e interpretare la pioggia degli influssi celesti affidati da Dio ai corpi astrali; non hanno potenziato il libero arbitrio ri- cevuto direttamente dal Creatore, capace di arginare le inclinazioni maligne e di potenziare quelle benigne provenienti dal cielo. Hanno, dunque, sottomesso la libera volontà di scegliere tra il bene e il male alla tirannia degli astri, meritando l’eterna dannazione.

Nelle successive cantiche, l’astrologia degli influssi astrali e delle inclinazio- ni viene resa dal poeta in senso cristiano-cattolico e spirituale, fino ad essere trasmutata nella divina prospettiva dell’‘inveramento’ e dell’‘indiamento’. Nella salita al santo monte del Purgatorio, alle sfere celesti fino all’Empireo, come in un climax ascendente, ritmato dalla cristianizzazione, dalla spiritualizzazione e dalla divinizzazione dell’astrologia, Dante opera una totale trasfigurazione della

‘profetissa degli astri’ attraverso la fede e la teologia. La «gran virtù» delle «glo- riose stelle»10 del segno zodiacale dei gemelli (il «lume pregno / di gran virtù, dal quale io riconosco / tutto, qual che si sia, il mio ingegno»), proviene dalla luce e dall’amore che compongono l’Empireo. È «virtù» modellata in senso astrologico, nella lettura tutta divina della natura dell’universo, regolata dal «cie- lo», il cristallino, che «non ha altro dove / che la mente divina», dalla quale han-

7. Casali 2014a.

8. Casali 2007.

9. Dante, Inferno, XX, 29-30.

10. Dante, Paradiso, XXII, 112-11.

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no origine «l’amor che ‘l volge», che lo rende velocissimo, e «la virtù ch’ei pio- ve», lasciando cadere a pioggia gli influssi nei cieli sottostanti.11

È la «virtù» che, indistinta, scende da Dio attraverso i Cori angelici fino al Cielo Cristallino: la diversificazione si compie con il passaggio dal Primo Mobile alle «diverse essenze», ossia le stelle dell’ottavo cielo; allo stesso modo raggian- do dalle Stelle Fisse ai cieli dei pianeti, la «virtù» siderale si differenzia ulterior- mente, modellandosi negli influssi sul mondo sublunare.12

Tale «virtù» è effusa dal moto del nono cielo, che dà la misura al moto delle rimanenti sfere, come gli ingranaggi che compongono l’orologio del tempo co- smico. Un tempo creato come atto d’amore («s’aperse in nuovi amor l’etterno amore») da Dio, «là ‘ve s’appunta ogne ubi e ogne quando», dove terminano ogni luogo e ogni tempo.13 È il tempo del mondo sensibile, creato in modo istantaneo e simultaneo, nelle sue tre parti, tali da permettere che, «come d’arco tricordo tre saette», «forma e materia, congiunte e purette», andassero a com- porre la «cima del mondo», le intelligenze angeliche, la «parte ima», ossia il mondo sublunare, e il «mezzo», i cieli.14

È la «virtù» che alimenta il motore dell’universo, il nono cielo, in cui affon- da le radici proprio come in un vaso il tempo che, paragonato all’albero cosmi- co capovolto, è un albero di luce che protende le fronde verso i cieli sottostanti.

La natura del mondo, che quïeta il mezzo e tutto l’altro intorno move, quinci comincia come da sua meta;

e questo cielo non ha altro dove che la mente divina, in che s’accende l’amor che ‘l volge e la virtù ch’ei piove.

(…)

Non è suo moto per altro distinto, ma li altri son mensurati da questo, sí come diece da mezzo e da quinto e come il tempo tegna in cotal testo le sue radici e ne li altri le fronde, omai a te può esser manifesto.15

È la luce del tempo astrologico che si dirama e si riflette da una sfera all’altra.16 Attraverso la simbologia dell’albero capovolto, viene divinizzata la pioggia degli influssi astrali, misurata dal moto delle varie «rote» celesti che determinano gli influssi sul mondo elementare e le provvidenziali inclinazioni sulla natura umana.

11. Dante, Paradiso, XXVII, 109-111.

12. Dante, Paradiso, II, 112-123.

13. Dante, Paradiso, XXIX, 18, 12.

14. Dante, Paradiso, XIX, 22-24; 31-36.

15. Dante, Paradiso, XXVII, 106-120.

16. Dante, Paradiso, XXVII, 118-119.

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Con la metafora dell’albero capovolto e la relativa «ambivalenza del simbo- lismo ciclico»,17 Dante elabora sul piano cosmologico e astrologico una rappre- sentazione complessa del tempo divino e siderale, che coniuga i principi di li- nearità e di circolarità. La linearità del tempo biblico, creato fuori dal tempo, nell’eternità, che all’eternità tornerà con la ‘fine dei tempi’, dopo l’apocalisse. La circolarità del tempo cosmico viene scandita, per volere del Grande Architetto dell’universo, dagli astri, dai due luminari maggiori, il Sole e la Luna, dall’alternanza del giorno e della notte, delle lune e dei mesi, delle stagioni e de- gli anni.18 Quella ciclicità del tempo che rinvia al ‘mito dell’eterno ritorno’, all’uroburo, il serpente che si morde la coda, e che in Dante si traduce nell’immagine isotopica del cerchio: l’«alta rota», i «cerchi corporai», i «cerchi superni», la «circolar natura», i «cerchi d’igne».

Pronostici Lunari e Almanacchi

Durante lo studio di Pronostici Lunari e Almanacchi con particolare riferimento all’età moderna,un percorso a ritroso, seguendo piste tematiche e metodologi- che, ha permesso di risalire all’astrologia dantesca e all’albero del tempo paradi- siaco.

Da un lato, un evidente filo rosso ha permesso di rinviare all’astrologia cri- stiana medievale i fenomeni che avvengono in età tridentina e postridentina: la cristianizzazione del pronostico astrologico, la condanna e la censura della giu- diziaria, la reinvenzione e ridefinizione della ‘vera e cristiana’ astrologia,19 identi- ficata nell’astrologia naturale del sapiens dominabitur astris (Tolomeo), poiché stel- lae inclinant sed non cogunt. Dall’altro lato, l’antica ascendenza araba e medievale del sapere astrologico e dell’esercizio divinatorio, che lungo i secoli confluisco- no attraverso le auctoritates arabe, greche e latine nelle pagine dei Pronostici, ne ha incoraggiato una lettura giostrata tra le categorie dell’‘alto’ e del ‘basso’, della sincronia e della diacronia. Seguendo le orme metodologiche di un autorevole maestro del ‘popolare’, Piero Camporesi, di innalzare il ‘basso’ facendolo dialo- gare con l’‘alto’,20 il tentativo è stato quello di sublimare mediante il ‘dotto’ una produzione che si configura, a seconda delle definizioni, come ‘di consumo’,

‘popolareggiante’ e ‘divulgativa’. L’immagine dantesca dell’albero del tempo, in- fatti, riverbera la sua luce splendente e chiara sulla natura astronomica, aristote- lico-tolemaica della rappresentazione del tempo che si dipana sulle pagine di Pronostici, Lunari e Almanacchi.

Esaminate nell’ampio arco di tempo dell’età moderna, le previsioni formu- late dai ‘iudicii’ nell’interpretazione delle configurazioni astrali tracciate nella fi-

17. Durand 1972, 347.

18. Genesis, 1, 14-15.

19. Casali 2013c; Casali 2014a; Casali 2014b.

20. Camporesi 1991.

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gura celeste – calcolata ed elevata a ogni lunazione per tutto l’anno – si diversi- ficano nella sostanza, a seconda della dottrina e delle abilità tecniche degli astro- logi compilatori e della libertà o meno di applicare alle disposizioni astrali i principi della divinazione giudiziaria.

Termini spesso utilizzati come sinonimi, Pronostici, Lunari e Almanacchi pre- sentano, in realtà, sfumature più o meno vistose dipendentemente dai contesti cronologici in cui essi sono stati prodotti e ‘consumati’, specchiandosi e model- landosi sulle vicende storiche politiche e culturali del loro tempo. Nella sfera onnicomprensiva di Almanacchi si riconosce, infatti, una produzione sterminata di libri, la cui consistenza è impossibile determinare, dato il carattere di facile deperibilità per l’usura e per la scadenza annuale che li rende superati, inservibili e inutilizzabili. Perciò di tante testate si sono smarrite le tracce e di tante altre sono sopravvissuti esemplari rari, rarissimi e spesso unici. Si va dai Calendari ai Lunari, dai Taccuini ai Iudicii, dai Pronostici ai Discorsi astrologici fino agli Almanacchi, veri e propri libri di lettura oltre che di misurazione del tempo e di interpreta- zione delle rivoluzioni planetarie. Una produzione che, nell’età della stampa, si dilata fino a conoscere una diffusione eccezionale a ogni livello culturale e pres- so ogni ceto sociale, creando un pubblico ampiamente composito di estimatori e di lettori.

Diversamente orchestrati e assemblati, i dettami delle stelle e dei moti delle sfere vengono confezionati in libri di pratica e quotidiana utilità per sovrani e religiosi, politici e letterati, dotti e semidotti e ‘semplici’ o ‘uomini mecanici’; ar- tigiani e villani, mercanti e viaggiatori. Diventano in breve tempo strumenti in- dispensabili alla vita di ogni giorno, bussole per orientarsi verso l’inafferrabile e misterioso volere divino che si esplica attraverso gli astri, le seconde cause di ogni evento sublunare. I libri dell’anno, infatti, contengono anticipazioni relati- ve al raccolto, alla meteorologia, alla medicina, agli affari del mondo, configu- randosi come guida ai lavori della terra, indispensabile alle professioni di medici, chirurghi e barbieri; bollettino meteorologico per viaggiatori e naviganti; consi- gliere nella vita pubblica e privata, negli affari di stato e nei negozi di famiglia.

Sulle pagine del pronostico, il ‘tempo astrologico’ sembra configurarsi come una categoria filosofica e scientifica universale, nella quale si possono inscrivere le più diverse rappresentazioni storiche e antropologiche del tempo dal Me- dioevo alla prima età moderna. Appare un denominatore comune sotteso al

‘tempo della chiesa’ come al ‘tempo del mercante’ (Jacques Le Goff), al tempo della civitas come al ‘tempo di villa’ (Piero Camporesi).

Pur nella ripetitività da cui appare fortemente caratterizzato per lo schema stesso dello svolgersi dei cicli solari e lunari, il genere del pronostico astrologico si configura sfaccettato e diversificato sia in prospettiva sincronica che diacro- nica, sia per le strutture che per i contenuti. Si tratta di una produzione a stampa in cui confluiscono forme letterarie e saperi di origine composita, che implicano un’indagine interdisciplinare sulla professione dei Formatori de’ pronostichi lunari e

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almanacchi,21 sull’invenzione e la formazione del pubblico cui è destinato il libro sul tempo a venire. L’indagine letteraria, linguistica e filologica dei testi sconfina necessariamente in quella filosofica e scientifica, storica e antropologica: inter- roga la storia della stampa e dell’alfabetizzazione, dei saperi della filosofia della natura e della loro divulgazione; tiene conto dei livelli di cultura e dei sistemi di comunicazione;22 dei rapporti di circolarità, di interdipendenza e di dialogo tra cultura ‘dotta ’ e cultura ‘popolare’; dei ‘mediatori’ tra ‘grande’ e ‘piccola’ tradi- zione (Robert Redfield), tra cultura ufficiale e cultura subalterna.

La storia della tradizione pronosticante astrologica scrive pagine in cui si sedimentano memorie stratificate e solidamente amalgamate: memoria testuale e memoria iconografica; del vivere quotidiano e dell’immaginario collettivo. È una storia che racconta come, seguendo le leggi del mercato editoriale, insieme ai libri venissero creati i lettori di quegli stessi libri; e come quei libri, che cicli- camente reinventavano in cifre astronomiche e astrologiche le stagioni dell’anno, da un lato svolgessero la funzione di sdrammatizzare l’angosciosa immagine del Dio Cronos, con l’illusione di aggredire il tempo misurandolo e sminuzzandolo; dall’altro lato rappresentassero un efficace strumento di con- trollo e di acculturazione, secondo strategie politiche e culturali che modellava- no e diffondevano una precisa idea di tempo: il tempo dello ‘stato’ (Pierre Bourdieu).

Come la letteratura del canone, la produzione in limine ha espresso attraver- so i secoli i propri classici. Anche il genere letterario del pronostico, lunario e almanacco ne vanta di propri: può esibire libri di pronosticazione del futuro at- traverso la lettura degli astri che meglio di altri «servono a capire chi siamo e dove siamo arrivati»; che «s’impongono come indimenticabili» e si «nascondono nelle pieghe della memoria»; che portano «su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultu- ra o nelle culture che hanno attraversato».23

Proprio la riscoperta di un ‘classico’ della pronosticazione, gli Arcani delle stelle di Don Antonio Carnevali, rappresentò il punto di partenza della trenten- nale ricerca sul libro dell’anno e sulla professione dell’astrologo pronosticatore che sta alle spalle de Le spie del cielo.24 Astrologo di larga fama in Italia, nei de- cenni centrali del XVII secolo; ‘caposcuola’ dei pronosticatori romagnoli e astrologo d’apparato, al ‘servizio’ di grandi signori e di potenti ecclesiastici, car- dinali, legati pontifici, il ‘Tycone’ ravennate compilò per circa quattro decenni un Discorso astrologico annuale. Si tratta di pubblicazioni dottissime, sia dal punto di vista astronomico che da quello astrologico, molto circostanziate e puntuali, come solo poteva fare un esperto di compasso e astrolabio addottoratosi in arti e medicina presso lo Studio bolognese. Grazie all’intitolazione, alla struttura te-

21. Garzoni 1985, Disc. VIII.

22. De Vivo 2012.

23. Calvino 1995, 13, 7-8.

24. Casali 2003.

(28)

stuale, allo stile narrativo e al fraseggio pronosticante, gli Arcani lasciarono im- pronte durevoli nella memoria della produzione tipografica almanacchistica fino all’inizio dell’Ottocento.

Dilatatasi in senso cronologico, ante e post Carnevali dal Quattro al Sette- cento, nella prospettiva orizzontale e verticale, diacronica e sincronica, l’indagine è stata rivolta in modo particolare verso la pronosticazione astrologi- ca accademica e quella divulgativa di matrice dotta, secondo percorsi ad ampie campate che «collegano punti lontani dello spazio e del tempo».25 Seguendo tali premesse, è stata seguita, ricomposta e ridisegnata, l’evoluzione del ‘pronostico accademico’ (dal Tacuinum ac Iudicium astrologico al Taccuino astronomico) e, nello stesso tempo, è stata tracciata la filiazione dal modello accademico del pronosti- co dotto divulgativo del Discorso astrologico e dell’Almanacco astrologico.

Una recente ricerca condotta a otto mani sui Pronostici di Domenico Maria Novara, professore a Bologna a partire dal 1493 fino al 1504 e maestro di Co- pernico, dimostra quanto possa essere proficuo per la storia della cultura e della filosofia della natura lo studio dei Pronostici, definiti materiali tipografici ‘minori’, a lungo misconosciuti come ‘fonti’ dagli storici della scienza.26 Riesumati ora da fondi bibliotecari antichi e presentati in un’edizione moderna più facilmente ac- cessibile, i Pronostici di Domenico Maria Novara possono favorire le ricerche di storia della cultura, dell’astrologia e della letteratura pronosticante, della diffu- sione del pronostico accademico compiutasi attraverso volgarizzamenti destina- ti, come scriveva l’astrologo ferrarese nel Iudicio per il 1484, a «li homini li quali sono vulgari et non hano dato opera a la astrologia».27

Il genere pronostico conosce una tale fortuna da prolificare presto, infatti, anche fuori dall’Accademia per mano di astrologi addottorati, soprattutto medi- ci e filosofi. Il processo di divulgazione del sapere astrologico e della pronosti- cazione delle stelle che si compie già nel secondo Quattrocento, passa attraver- so una serie di operazioni letterarie e retoriche che interessano il Pronostico: vol- garizzamenti e semplificazioni, ‘sommari’ ed ‘estratti’, ma anche ‘plagi’ e ‘paro- die’ serie (pronostico spirituale) e facete (la parodia del pronostico costituisce già un esercizio retorico presso gli umanisti, genere frequentato con energia da Pietro Aretino).28

La produzione dei libretti e dei fogli volanti per il nuovo anno si diversifica non solo sul piano compilativo, a seconda del pubblico prefigurato, ma anche sul piano della tipologia della pronosticazione, come nel pronostico astrologico- profetico29 o quello occasionale su eventi celesti particolari (grandi congiunzio- ni, eclissi, comete e altri prodigi celesti); o a seconda dell’arco di tempo delle

25. Calvino 1998, 47.

26. Bònoli et alii 2012; cf. inoltre Westman 2011.

27. Ivi , 127.

28. Casali 2003, cap. IX.

29. I Pronostici profetici pubblicati tra Quattro e Cinquecento sono stati studiati da storici e filosofi: da Delio Cantimori a Eugenio Garin, da Paola Zambelli a Ottavia Niccoli.

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