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The infrastructural digital divide of Marche Region

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The infrastructural digital divide of Marche Region

Matteucci, Nicola

DiSES, Marche Polytechnic University

February 2015

Online at https://mpra.ub.uni-muenchen.de/65268/

MPRA Paper No. 65268, posted 25 Jun 2015 06:31 UTC

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Il divario digitale infrastrutturale delle Marche

Nicola Matteucci §

Pre-print version published in Prisma, n.1/2015

Abstract

Undoubtedly a fast and sustainable migration to the most innovative eServices requires the preliminary availability of a pervasive, reliable and updated digital network infrastructure.

Unfortunately, in Italy nor the Market neither the State promptly worked to solve the enduring infrastructural digital divide affecting many less populated areas of the country. Although the awareness of this divide in the public opinion has recently grown, the accumulated retard persists, and reduces the competitiveness of the national economy, now adversely impacted by the structural crisis and the industrial decline. In this work we critically discuss the conventional empirical evidences available on the Marche Region, and we present new and more accurate ones. Contrary to the received wisdom, it emerges that Marche and more generally the NEC area remain among the most disadvantaged regions of the country, also due to the polycentric and diffused characters of their model of socio-economic and urban development. Looking into the near future, we envisage that the passage to the next generation of broadband (NGAN) will accentuate the existing coverage and quality problems of the digital infrastructure while, considering the employable public funds, to date there isn’t any trace of a prospective landmark change in policy-making.

Key-words: Broadband and ultra-broadband, coverage, statistics, infrastructural investments, Marche Region.

.

1. Introduzione

Gli eService - specie quelli privati (che siano eCommerce, eProcurement, Infomobility, o eHealth cambia poco) - non possono diffondersi in assenza di una capillare ed adeguata rete di connettività digitale, così come le automobili non sarebbero potute divenire un bene di massa senza un’estesa rete stradale ed autostradale. Per gli eService pubblici (si pensi all’eGovernment), da un mero punto di vista di sostenibilità economica, il vincolo posto dall’estensione delle reti digitali in teoria sarebbe meno cogente, a motivo del fatto che la loro offerta è supportata principalmente dal finanziamento statale: tuttavia anche qui, per aversi diffusione ed utilizzo effettivi, l’offerta pubblica non dovrebbe trascurare di predisporre le condizioni infrastrutturali minime abilitanti, da individuare a seconda dell’utenza-tipo – pena il mancato raggiungimento di massa critica e l’insuccesso1. D’altro canto, come vedremo infra, per gli eService pubblici si pongono esigenze di

§ DiSES, Facoltà di Economia, Università Politecnica delle Marche, n.matteucci@univpm.it. Ringrazio Infratel Spa per utili chiarimenti sui relativi dati qui utilizzati, facendo i consueti caveat. Aggiornamento ai fatti rilevanti: Gennaio 2015.

1 L’economia dell’innovazione è piena di casi di tecnologie promettenti poi fallite per mancanza di condizioni complementari abilitanti o altri errori fatti in fase di commercializzazione.

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servizio universale specifiche ed irrinunciabili, che presuppongono la copertura totale del territorio popolato da parte delle reti digitali. Infine, per entrambi i tipi di eService, nel tempo le performance tecniche delle reti devono rimanere al passo con i tempi, accompagnando il veloce tasso di innovazione tecnologica tipico delle Information and Communication Technology (d’ora in poi, ICT). Con le ICT, non solo si ha un aumento continuo delle capacità di memoria e di calcolo dei processori e dei device che li incorporano (come stilizzato dalla nota legge di Gordon Moore2), ma a cascata anche l’uso di sistemi operativi, pacchetti software, file e formati multimediali di dimensione crescente (in termini di bit/byte). In breve, se gli eService sono pensabili come basati su flussi di dati (codificati secondo certi formati e protocolli di trasmissione), il loro sviluppo su larga scala presuppone, da un lato, la disponibilità di apparati elettronici di trasmissione e ricezione non obsoleti, ma dall’altro anche la disponibilità pervasiva di reti di trasporto “a banda larga”

sufficientemente capienti e a prova di futuro (“scalabili”)3. Solo con ciò le reti di connettività digitale agiscono come autostrade (e non mulattiere) dell’informazione, facendo fluire velocemente i pacchetti di dati4 trasmessi, evitandone la perdita, la degradazione o comunque il rallentamento eccessivo - pena la non fruibilità o la svalutazione del servizio digitale offerto. Va anche aggiunto che, con l’attuale passaggio ad infrastrutture di data computing and storage di tipo cloud nelle imprese e nella PA, la stabilità e la qualità della connessione dati diventa sempre più un fattore cruciale da assicurare; in mancanza, si genererebbero interruzioni di servizio, con danni e costi molto alti per l’utenza. Ancora, nel comparto dei servizi consumer, il progressivo passaggio a piattaforme di distribuzione di contenuti video online (come con la IPTV e l’Internet TV), anziché di tipo broadcast (trasmissione terrestre o satellitare), e la diffusione della TV ad alta ed ultra definizione, aumentano quasi-esponenzialmente il traffico dati, e di conseguenza la banda media necessaria per l’utente di una rete IP (Internet Protocol).

In tale senso, qualsiasi analisi compiuta sull’introduzione, diffusione ed utilizzo di eService dovrebbe prima accertare: 1) se sul territorio indagato vi siano le condizioni infrastrutturali abilitanti, e 2) se le stesse siano a prova di obsolescenza tecnologica: Infatti, le alternative esistenti di reti digitali, pur essendo trattate in modo non-discriminatorio dalla normativa europea, scontano caratteristiche tecno-economiche ed assicurano livelli di servizio oggettivamente diversi, che in alcuni casi potrebbero non supportare gli eService più band-demanding.

Ancora, va aggiunto che al variare degli stati e regioni UE considerati, si pone in modo differente anche la problematica dello sviluppo infrastrutturale: questo perché varia lo stato tecnologico e qualitativo delle reti, sistemi e apparati di legacy, nonché i fabbisogni di connettività delle società ivi residenti. In definitiva, non esiste un mix di impiego dei fondi dedicati all’Agenda digitale ottimale in senso assoluto (ossia, normativo), bensì uno ottimale in senso relativo, ossia da determinare in relazione alle condizioni di partenza e alle traiettorie locali5. Di fatto, anche a livello

2 Il co-fondatore di Intel, osservando i fatti di mercato, ha canonizzato nel tempo una regolarità secondo cui le prestazioni dei processori a semiconduttori, assieme al numero di transistor in essi contenuto, raddoppiano circa ogni 18 mesi (ultima versione).

3 Per una verifica econometrica recente del ruolo propulsivo della diffusione della banda larga sull’incremento dei tassi di adozione e utilizzo degli eService, in un panel di paesi UE, si veda Seri et al. (2014).

4 In riferimento principale qui va alla modalità di trasmissione su protocolli TCP/IP, tipici delle reti Internet, che si basano sul concetto di pacchetto di dati da trasmettere. La trasmissione consiste appunto nella scissione del flusso di dati originario in pacchetti che vengono instradati lungo la rete, e poi ricomposti dall’apparato ricevente dell’utente finale per generare il messaggio o il servizio.

5 Del resto questo è anche un principio cardine delle politiche di coesione europee, secondo l’idea chiave di “place- based” policy, ossia basate sul contesto di intervento (cfr. Barca et al. 2012).

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positivo (fattuale), vediamo che nell’aggregato UE si stagliano strategie e mix diversi di impiego dei fondi strutturali, suddividendo tra utilizzo per infrastrutture e per eService6.

Per questi motivi, prima ancora di affrontare le questioni inerenti la spiegazione del divario digitale comportamentale (incentrata sui caratteri socio-demografici della popolazione – in primis l’alfabetizzazione digitale – e i soliti fattori di domanda), in questo lavoro ci si concentrerà sullo stato dell’offerta in una piccola regione come le Marche, visto attraverso indicatori quali il grado di copertura e di performance del servizio di banda larga e ultra larga. La conoscenza di questo tema, a partire dalla sua ‘banale’ morfologia territoriale, assume una rilevantissima importanza ai fini di policy, in quanto la mancata presenza del servizio di connettività digitale (appunto, il divario digitale infrastrutturale), nello specifico caso di molti eService pubblici, rende impossibili o comunque politicamente meno agevoli scelte coraggiose di switch-off dei servizi analogici della PA, e più in generale strategie innovative radicali (per l’esame del trade-off tra backward interoperability e innovative performance, si rimanda al classico compendio di Shapiro e Varian, 1999). Infatti, finché l’ultimo cittadino di una data regione non sarà raggiunto da un’adeguata connessione a banda larga, non si potranno facilmente smantellare i vecchi processi amministrativi basati sulle tradizionali procedure burocratiche cartaceo-analogiche, né puntare pienamente su modalità di erogazione diverse di nuovi servizi – magari tecnologicamente più performanti o efficienti. Sono quindi evidenti le duplicazioni di struttura burocratica e l’aggravio di oneri per il bilancio della PA che provoca uno stato di copertura delle reti a banda larga anche solo marginalmente incompleto o comunque deficitario. Inoltre, siamo del parere che la persistenza inerziale dello stesso divario ed il ritardo nei piani di infrastrutturazione, cumulandosi a cascata, potrebbero minare la stessa credibilità dei piani di migrazione agli eService (e/o di eventuali sunset date annunciate per lo switch-off dei servizi analogici), di fronte agli stakeholder. In presenza di aspettative non realizzate e comportamenti interdipendenti, infatti, gli agenti di questo ipotetico gioco di coordinamento potrebbero avere convenienza individuale a posizionarsi su equilibri di attesa reciproca socialmente inefficienti, che ritarderebbero ulteriormente il processo di switch-over al digitale, finendo per compromettere la complessiva strategia dell’Agenda digitale del paese. In altri termini, stiamo asserendo che nel settore in questione si può verificare una dinamica di effetti di rete con feedback in cui il divario digitale infrastrutturale e quello comportamentale si potenziano a vicenda, come già mostrato dall’esperienza recente del passaggio alla TV digitale terrestre in alcuni paesi europei (in primis, ancora una volta, l’Italia), che ci sono arrivati con problematiche tecniche e molto ritardo rispetto agli ottimistici piani iniziali. Anche qui, il caso delle Marche e di altre regioni costiere adriatiche è particolarmente nevralgico, alla luce delle attuali problematiche di interferenza e coordinamento frequenziale con i paesi dell’altra sponda, che si riflettono pure sullo spettro allocabile alla banda larga di tipo wireless7.

Infine, i problemi dello sviluppo infrastrutturale si legano a quelli dell’interoperabilità, da assicurare attraverso un insieme di servizi che si fondino su standard comuni: su questi temi, purtroppo, al momento vige in Italia una grossa confusione organizzativa circa le modalità e i livelli di governo demandati alla loro soluzione. Ad essi occorrerebbe dedicare uno specifico saggio.

6Per un’analisi quantitativa nel periodo 2007-13 sulle regioni dell’obiettivo Convergenza, si veda Reggi e Scicchitano (2011).

7 La comune appartenenza di queste regioni alla Macroregione Adriatico-Ionica in questo senso potrebbe fornire una preziosa occasione di coordinamento e concertazione, finora non sfruttata.

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Il lavoro si struttura come segue. Nel paragrafo 2 si traccia un breve excursus sulle ragioni dell’intervento pubblico in un settore ormai privatizzato, evidenziando le comunalità che contraddistinguono il divario digitale infrastrutturale dell’Italia e di molte sue regioni – Marche incluse. Il paragrafo 3 apre una breve riflessione metodologico-statistica sulle insidie delle cifre sulla banda larga; insieme, si confutano alcuni luoghi comuni ed imprecisioni spesso presenti negli stessi documenti di policy, oltre che nella pubblicistica. Con i paragrafi 4 e 5 si passa ad un’analisi ragionata delle principali evidenze in serie storica sui processi diffusivi della connettività digitale nelle Marche, in un’ottica comparativa tra regioni. In particolare, mentre il paragrafo 4 approfondisce lo stato della dotazione infrastrutturale riferita alla prima generazione di banda larga (quella capace di fornire connettività in downloading da 2 a 20 Mbs) , il paragrafo 5 scandaglia il futuro prossimo, tratteggiando le tendenze diffusive implicite nel graduale passaggio ad architetture di rete di tipo NGN-NGAN (Next Generation Network, o anche Next Generation Access Network), che sono quelle in grado di fornire la banda ultra larga (con una performance di downloading di almeno 30 Mbs), necessaria agli eService più innovativi in corso di sviluppo. Nel paragrafo 6 si riassumono le principali evidenze sul caso marchigiano; insieme, si tratteggiano le principali implicazioni per le politiche industriali e regionali di coesione territoriale causate dal deficit infrastrutturale tuttora presente.

2. Le ragioni dell’intervento pubblico in un settore privatizzato

In paesi come l’Italia, purtroppo, l’assenza della TV via cavo analogica8 ha fatto sì che le uniche reti di comunicazione esistenti digitalizzabili per il traffico dati business e consumer fossero quelle di telefonia fissa su doppino di rame (con l’ADSL), prima della successiva disponibilità, a partire dal 2009, di quelle su rete cellulare mobile; queste ultime, però, al momento registrano performance teoriche inferiori, con l’aggravante che quelle effettive sono molto difficili da prevedere ex-ante.

Anche se in teoria vi sarebbero altre soluzioni non cablate (ad es., il satellite o il Wi-Max9), in Italia ad oggi nessuna di esse ha raggiunto una scala di diffusione nazionale significativa; pertanto, qui ci concentreremo principalmente su ADSL e rete mobile, e loro evoluzioni10.

Se le opportunità tecnologiche in un’economia globalizzata sono potenzialmente disponibili a tutti i paesi che possano e decidano di sfruttarle, rimane comunque il problema del mercato e dei variabili incentivi che esso offre agli operatori privati (orientati al profitto), che possono o meno decidere di investire nelle tecnologie di punta, per offrire alla loro utenza prodotti e servizi innovativi. A tale proposito, l’attuale situazione deficitaria della banda larga italiana sembra riflettere un tipico problema di mancanza di incentivi di mercato dell’operatore privatizzato – per definizione ormai incoercibile a finalità di interesse pubblico e bene comune, come ad esempio quella di una rapida eliminazione del divario digitale infrastrutturale per assicurare la coesione territoriale e contrastare il declino socio-economico delle aree periferiche di ogni regione. Inoltre, la solidità e la capacità di investimento di Telecom Italia oggi risulta molto inferiore – ceteris paribus

8 Negli anni Settanta i suoi primi sviluppi vennero “soffocati in culla” da una regolamentazione irrazionale e volutamente penalizzante, a favore delle reti e degli operatori di trasmissione wireless su bande VHF e UHF, nota anche come trasmissione “terrestre”, nonostante la palese inferiorità tecno-economica di questa ultima.

9 Occasionalmente esse vengono impiegate specie nelle aree più periferiche e marginali delle Marche, specie con la modalità di intervento C del Piano Nazionale Banda Larga.

10 In ogni caso, le statistiche MISE-Infratel che useremo tengono conto delle soluzioni wireless minori.

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– a quella di altri ex-monopolisti europei di riferimento, a motivo delle speciali e straordinarie vicissitudini che hanno caratterizzato l’esperienza italiana di privatizzazione11. In breve, l’ex- monopolista è stato lasciato preda di vari tipi di speculazioni (in primis, con il leverage buyout), che dopo qualche anno hanno lasciato sul terreno un operatore ridimensionato in capitali e addetti, fortemente indebitato e privo dei suoi asset più strategici. Per di più, nonostante i successivi cambi negli assetti di controllo e nel management, ancora oggi Telecom Italia sembra mancare di una governance stabile, oltre che di una strategia aziendale autonoma da interessi estero-centrici o di altri soggetti industriali anche rivali, come dovrebbe invece accadere ad una public company. In questo difficilissimo contesto, gli investimenti tecnici nelle reti, soprattutto quelle cablate, sono stati ovviamente i primi ad essere sacrificati “al minimo sindacale”, stante anche la situazione di assenza di concorrenza di operatori di rete alternativi e le inevitabili pressioni per la remunerazione degli azionisti di fronte al declino della capitalizzazione di borsa12.

Ulteriormente, va aggiunto che oggi, all’interno del mercato unico dell’UE, una classe politica che fosse dotata di una politica industriale seria per l’Agenda digitale del paese, e che volesse imprimere un’accelerazione all’infrastrutturazione delle reti a banda larga del territorio, troverebbe numerosi e cogenti paletti nella normativa comunitaria (a cominciare dalle norme sugli aiuti di stato dei Trattati UE), che ne limitano l’azione alle cosiddette aree “bianche” e, in misura ancor più ristretta, alle aree “grigie” del territorio (tipicamente, aree periferiche e rurali) – aree queste dove l’intervento pubblico può essere giudicato non-distorsivo rispetto all’iniziativa privata, e quindi compatibile.

La struttura base delle reti a banda larga è suddivisibile in infrastrutture “passive” (come edifici, torri di trasmissione, condotti e cablaggi - in rame o fibra ottica) e “attive” (apparati elettronici e varie tipologie di software). Tipicamente, l’intervento pubblico diretto o in forma di partnership pubblico-privata (PPP) viene ritenuto ammissibile ed opportuno nel primo tipo di infrastrutture, mentre nelle seconde si tende ad ammettere solo un più limitato contributo pubblico ai costi di infrastrutturazione (tipicamente, un sussidio in conto capitale o finanziamenti a condizioni privilegiate), da erogarsi agli operatori di telecomunicazione che si aggiudicano i relativi bandi.

Pertanto, anche dopo la privatizzazione di Telecom Italia, a partire dall’inizio del decennio scorso varie istituzioni pubbliche hanno continuato a pianificare interventi e investire fondi nel settore delle telecomunicazioni e nelle infrastrutture di reti a banda larga, onde assicurare una qualche minima forma di offerta alle molte comunità e territori privi di essa, o con infrastrutture deficitarie. Purtroppo, le forme ed i tempi dell’intervento pubblico, nelle sue varie fasi ed articolazioni in una pluralità di esecutori (governo, regioni ed enti locali) e stakeholder, presenta numerose problematicità, come evidenziato da un’ancora scarsa ma incipiente letteratura (ad es., Matteucci 2014a,b,c). Al tempo stesso, l’intervento pubblico deve comunque svolgersi entro i rigidi paletti normativi posti ai fini della non distorsività rispetto all’iniziativa privata, ed è chiamato a raccordarsi funzionalmente con gli investimenti complementari degli operatori di rete, come nel caso della relazione di complementarietà funzionale tra l’investimento pubblico per il backhauling

11 Un esempio istruttivo è la comparazione con Telefonica, che mostra dal 1999 ad oggi un vero e proprio ribaltamento nella classifica delle rispettive situazioni patrimoniali; oggi Telefonica addirittura controlla Telecom Italia, influenzandone sostanzialmente le strategie anche nei mercati esteri come l’America latina, dove entrambe competono.

12 Invero, la storia recente di Telecom Italia sembra un caso emblematico di quei comportamenti imprenditoriali egoistico-opportunistici che Ernesto Rossi e Gaetano Salvemini amavano definire come “privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite”. Per maggiori spunti critici e analisi di bilancio a supporto di queste posizioni, si veda, tra gli altri, la documentazione disponibile sul sito web di ASATI (http://asati.eu ) e il lavoro di SLC-CGIL (2007).

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delle centrali13 in aree a fallimento di mercato, e quello privato negli apparati elettronici per la rete di accesso. Questi ed altri esempi, commentati infra, evidenziano come la soluzione del divario digitale infrastrutturale oggi fatichi a risolversi nella pura alternativa classica tra Stato e Mercato, essendo questi ultimi da sé insufficienti e dovendo invece cooperare secondo schemi largamente inediti - senza però che questa cooperazione sia normativamente coercibile.

Più specificamente, all’oggettiva complessità procedurale ed esecutiva che incontra nelle UE ogni aiuto di stato in un settore privatizzato e high-tech, nel caso italiano si aggiungono le irrisolte problematicità “di sistema-paese”: tra esse, citiamo l’estrema complessità della normativa sulle opere pubbliche, che impone un raccordo spesso ridondante e dilatorio tra una pluralità di soggetti e livelli decisionali, l’estrema parcellizzazione e burocratizzazione dei processi amministrativi, governati da norme ispirate a criteri formali ma non sostanziali, e infine la presenza di comportamenti opportunistici e dinamiche di ciclo politico: mentre i primi due elementi sono dovuti alle carenze del quadro normativo, agli altri non sono estranei conflitti di interesse e vested agenda, nonchè il fatto che lo sviluppo della banda larga finora non è stato considerato tra i temi prioritari dell’agenda politica nazionale (e talora anche locale), nonostante esso sia cruciale per la competitività e lo sviluppo socio-economico del paese. Ad esempio, circa i fenomeni di ciclo politico elettorale e di political rent-seeking, non è un mistero che per molti amministratori dei circa 8050 comuni italiani sia oggi elettoralmente più redditizio (oltre che proceduralmente più facile) spendere centinaia di migliaia quando non milioni di euro in opere civili tradizionali di dubbia utilità (si pensi alle oggi onnipresenti rotatorie stradali, o agli inflazionati svincoli o circonvallazioni che spesso consumano suolo prezioso e deturpano irrimediabilmente lo stesso scenario urbano), piuttosto che dedicare cifre analoghe alle ben più strategiche opere di infrastrutturazione passiva per le reti a banda larga (scavi, dotti e cablaggi), il cui iter invece sottosta ad una serie di passaggi, vincoli e condizioni di ammissibilità che lo rendono un’opera burocraticamente molto più complessa, e meno gestibile ai fini della sincronia con il ciclo politico ed elettorale14.

Quindi, il senso ultimo di questo paragrafo è che ogni tentativo di analisi della banda larga nelle regioni italiane deve tener conto di questo comune contesto nazionale di partenza, senza il quale non è possibile comprendere appieno il perché di una tale persistenza temporale del divario digitale infrastrutturale, a fronte della sua utilità percepita (almeno tra molti stakeholder – in primis il mondo dell’impresa). Pertanto, pur configurando interventi logicamente sotto-ordinati e proceduralmente successivi rispetto agli sviluppi autonomi di mercato, le politiche pubbliche per la banda larga rivestono, nel bene e nel male, un’importanza centrale per la soluzione del divario digitale infrastrutturale. Come vedremo nei paragrafi successivi, pure nelle Marche è soprattutto grazie ad esse se si è giunti – pur nelle forme parziali e con il ritardo che constateremo - ad attenuare il divario che sarebbe stato altrimenti presente15.

13 Con esso si intende il collegamento con fibra ottica delle centrali alla rete dorsale di lunga distanza, che implica una serie di opere civili di scavo e stesa di nuovi segmenti di rete. Esso è il presupposto per la fornitura di un servizio di banda larga minima e anche per le reti NGN.

14 Per una non recentissima analisi dedicata alle complessità procedurali degli interventi di infrastrutturazione a banda larga, si veda Tonetti (2011). Purtroppo, ancora a fine 2014, data dell’ultimo provvedimento di loro semplificazione amministrativa (c.d D.l. Sblocca Italia), non molto è cambiato in Italia (per una posizione analoga, cfr. Longo, 2014).

15 Questa affermazione sottende un ragionamento di tipo ceteris paribus. Infattti, il lettore accorto avrà intuito che in questo tipo di studio mancano adeguati controfattuali, per le condizioni in cui l’esperimento di riduzione del divario digitale si è svolto (mancanza del caso senza “trattamento” pubblico, mancanza di dati territorialmente dettagliati sui rispettivi investimenti, complementarietà dell’intervento pubblico con quello privato e della relativa funzione di produzione). Tuttavia, siamo del parere che, alla luce dell’assetto del mercato italiano dei servizi di connettività in banda larga (caratterizzato da un operatore dominante nell’accesso all’ingrosso, fortemente indebitato, e che influenza a

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3. Le facce del deficit infrastrutturale: una premessa metodologica

La diffusione della banda larga è un fenomeno composito e transdisciplinare, che presenta numerose ambiguità conoscitive, e abbisogna pertanto di approcci di studio interdisciplinari e metodologie di misurazione adeguate. Andrebbe innanzitutto premesso che, in un determinato territorio, prima di poter avere l’utilizzo sociale di una tecnologia come l’accesso ad Internet in banda larga, occorre che vi sia la disponibilità tecnica potenziale del servizio (cosiddetta

“copertura”, ossia assenza di divario digitale infrastrutturale): una volta assicurata la copertura, in base alle condizioni tecno-economiche del servizio (ad es. rapporto qualità-prezzo) e ad altre variabili individuali (alfabetizzazione digitale e altre caratteristiche socio-demografiche), la mera disponibilità del servizio può trasformarsi o meno in sottoscrizione. Questa premessa potrebbe sembrare a prima vista scontata ed inutile, ma in realtà non lo è, alla luce di quanto andremo a mostrare.

Purtroppo, a dispetto della sua importanza, su un tema così cruciale i metodi di rilevazione e le statistiche ufficiali rimangono ad oggi largamente insoddisfacenti, perfino in Europa: ad esempio, la principale iniziativa statistica della Commissione Europea (DG Connect) dedicata al monitoraggio della copertura delle reti a banda larga, fino all’edizione del 2013 si concentrava su indicatori di copertura nominale e non effettiva16.

Tuttavia, se le difficoltà di armonizzazione statistica comunitaria di fenomeni tecnologici intrinsecamente country-specific sono oggettive e quindi comprensibili, lo sono di meno l’inerzia di alcune authority ed istituzioni nazionali, che pure disporrebbero di mezzi atti a produrre stime disaggregate della copertura e dei livelli di qualità effettivi. Tra questi casi spicca l’Italia, dove la morfologia del divario digitale infrastrutturale e la qualità del servizio sono stati temi a lungo trascurati nel dibattito statistico-metodologico - perfino presso l’AGCOM, che su queste evidenze in teoria dovrebbe basare l’esercizio del proprio ruolo regolatorio17. Più in generale, la mancanza di trasparenza sulle condizioni effettive della banda larga rispecchia le molte inerzie e difficoltà che il paese registra sul fronte del rilascio di open data, sia privati che pubblici – un tema specificamente discusso in altri contributi in questo stesso numero, e contro cui si è spesso scontrato anche il sottoscritto.

Non sorprende, quindi, che il tema della copertura e della sua qualità rimanga in larga parte indeterminato, quando non addirittura foriero di confusione per l’opinione pubblica e gli stessi internauti. Stando ad alcuni recenti studi e documenti di policy regionale, ad esempio, anche per le Marche il problema della copertura della banda larga sembrerebbe ormai risolto – almeno per quella standard. Alessandrini (2014; p.216), ad esempio, riferisce che già nel 2012 le Marche avevano di fatto conseguito il primo dei traguardi dell’Agenda digitale europea, raggiungendo una copertura pari al 99% della popolazione – facendo perfino meglio della media italiana, che si fermava al 98%, cascata le strategie degli operatori minori), in mancanza dell’intervento pubblico la situazione del divario digitale infrastrutturale oggi sarebbe comunque peggiore di quella attuale.

16 A partire dall’edizione del 2014, realizzata da un nuovo consorzio di società di consulenza, è stata tentata per la prima volta anche una stima della copertura in grado di assicurare velocità effettive predefinite (cfr. EC 2014; pp.196 e segg.). Tuttavia, essa ha una minore disaggregazione territoriale e i suoi dati spesso non coincidono con quelli stimati da fonti nazionali specializzate, come quelle da noi usate nel prosieguo, di MISE-Infratel.

17 Come rilevato da Matteucci (2013), nel Rapporto annuale dell’AGCOM non è rintracciabile fino all’inizio del nuovo decennio alcun serio e sistematico monitoraggio della copertura effettiva e della qualità del servizio: questa situazione, oltre a lasciare mani libere all’operatore dominante, ha ritardato non poco la consapevolezza dell’opinione pubblica sulle opportunità della Società dell’Informazione, e sui suoi progressi.

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e di quella europea (solo 95,5%). Quindi, secondo queste cifre, nel 2012 le Marche avrebbero avuto un divario infrastrutturale di banda larga di appena l’1%. Ancor più ottimisticamente, recenti comunicati stampa dell’Assessorato regionale competente dichiaravano che a novembre 2014 tutte le Marche risulterebbero ormai coperte addirittura dalla rete ADSL premium - quella viaggiante a ben 20 Mbs18.

Purtroppo, da altri dati – a cominciare da quelli raccolti da EC (2014; p.120), che qui non commenteremo per lasciare spazio a quelli più performanti di MISE-Infratel - emerge una realtà piuttosto diversa, che si aggrava man mano che si passa ad indicatori sempre più accurati:

parafrasando l’insegnamento di Giorgio Fuà a proposito delle statistiche economiche, potremmo dire che anche le cifre sulla banda larga sanno essere molto insidiose!

4. Il deficit infrastrutturale del passato: la banda larga“di base”

Proviamo a ragionare su questi nuovi dati. Il grafico 1 presenta l’evoluzione temporale dell’indicatore che chiameremo “divario digitale (infrastrutturale) assoluto” (DDA), comparando le Marche (spezzata con rombi) con il Centro (con quadrati), l’area NEC (Nord-Est-Centro, cfr. il noto costrutto di Giorgio Fuà – con triangoli) e il paese nel suo complesso (spezzata con croce).

Grafico 1. L’evoluzione del divario digitale assoluto (DDA) nella banda larga

Legenda: % di popolazione residente non copertura da alcuna tipologia di banda larga. Le etichette-dati di NEC e Centro sono omesse per maggiore leggibilità.

Fonte: Nostre elaborazioni su dati MISE- Infratel

18 Più precisamente, mentre nel video https://www.facebook.com/video.php?v=727168794039472 si parla di copertura

totale già raggiunta, dal comunicato stampa scritto

(www.regione.marche.it/Home/Comunicazione/ComunicatiStampa/Comunicato.aspx?IdNews=24479) si evince che essa è attualmente al 95% del territorio, e che sarà completata a giugno 2015. Tuttavia, non vengono menzionati vari problemi (in primis, quelli causati dalle “linee lunghe”, che sono particolarmente rilevanti per l’ADSL premium), né il fatto che nelle zone marginali le alternative tecnologiche economicamente sostenibili non consentiranno di avvicinarsi effettivamente a tali livelli di performance nominale.

Marche; 15,6

Marche; 14,3

Marche; 13

Marche; 11,9

Marche; 10,7

Marche; 6,5

Marche; 5,8

Marche; 5,1

Marche; 4,1 Centro

NEC

Italia; 15

Italia; 13,1

Italia; 11,8

Italia; 10,5

Italia; 9

Italia; 6,3

Italia; 5,6

Italia; 4,9

Italia; 3,5 2

4 6 8 10 12 14 16 18

2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013

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9

Innanzitutto emerge che, all’inizio del periodo di osservazione (2005), le Marche avevano una situazione di connettività digitale sostanzialmente allineata alla media italiana, ma peggiore di quella del Centro (rispettivamente, con DDA pari a 15,6%, 15% e 13,4% della popolazione residente)19. Al contrario, la performance media dell’area NEC nel 2005 era ben inferiore (con un DDA di ben il 17,3%), essendo depressa dalle basse performance delle regioni dell’arco alpino del Nord-Est (in primis, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia) le quali, come rilevato da Matteucci (2014a), soffrono tutt’oggi condizioni orografiche e demografiche più penalizzanti - specie per la banda larga cablata. Per i motivi chiariti infra, la situazione di connettività in banda larga al 2005 dappertutto è pressoché interamente attribuibile alla copertura e alle condizioni tecniche della rete fissa in rame (ADSL) – a quel tempo l’unica disponibile sul territorio.

Successivamente, dal 2005 fino al 2009, il trend di riduzione del DDA marchigiano procede grosso modo con velocità simile a quella della media italiana – seppure inferiore a quella del Centro - fino al grande balzo di recupero fatto dalle Marche alla fine del decennio scorso: in un solo anno, dal 2009 al 2010, le Marche paiono conseguire una vistosa riduzione del deficit di copertura, passando dal 10,7 al 6,5% della popolazione residente nella regione: in altre parole, mentre nel quadriennio precedente il ritmo di riduzione si era attestato a circa un punto percentuale l’anno, in un solo anno il deficit residuo si dimezza20. Purtroppo, gran parte di questo miglioramento improvviso in realtà è frutto di un’illusione statistica, essendo ascrivibile al fatto che nel triennio 2008-10 si materializza un’importante innovazione nelle tecnologie di accesso a larga banda, con la commercializzazione su larga scala delle prime offerte di traffico dati su rete mobile di terza generazione (o 3G).

Dopo il 2010, il trend di discesa marchigiano ritorna modesto, e risulta sostanzialmente allineato all’evoluzione media del paese e del Centro, mentre la media NEC seguirà distaccata di qualche punto percentuale fino al periodo più recente. Va notato che, tra il 2010 ed il 2013 – che pure è un triennio caratterizzato da un forte impegno pubblico in parecchie regioni per l’esecuzione del Piano Nazionale Banda Larga – il DDA del paese e quello marchigiano si riducono di poco – praticamente di uno scarso punto percentuale annuo - e convergono, per congelarsi a fine periodo attorno alla soglia rispettivamente del 3,5% e del 4% della popolazione residente. In termini numerici assoluti questo significa che, nell’anno in cui, secondo gli obiettivi fissati dall’Agenda digitale europea (ADE), tutti i cittadini italiani avrebbero dovuto essere coperti almeno dal servizio

“di base” (ossia, quello pari ad almeno 2 Mbs), stando a questo indicatore preliminare in realtà ne rimanevano ancora privi oltre 2,1 milioni di residenti (per le Marche, oltre 60.000, ossia quasi quanto il terzo maggiore comune regionale, Fano).

Tuttavia la situazione digitale media nazionale è notoriamente appesantita dalle inferiori performance del Sud; se quindi si paragonano più opportunamente le Marche con il Centro, si riscontra che il loro divario infrastrutturale è leggermente superiore alla media della rispettiva macro-area geografica, che è abbassata dalle performance nettamente superiori del Lazio. Con questi dati, dunque, si rilevano per le Marche (e per il paese) problemi di copertura non marginali,

19 A causa della natura dei dati disponibili, le nostre medie di macro-area geografica (Centro e NEC) sono calcolate sui dati di copertura già regionalizzati (ossia sono medie semplici, non ponderate sul micro-livello). Peraltro, per i nostri fini comparativi, la media semplice è finanche più appropriata.

20 A conferma del ruolo di fattori sistemici, si nota che anche la situazione media nazionale fa registrare un sensibile miglioramento del divario (seppur inferiore a quello marchigiano) proprio in corrispondenza del periodo 2009-2010.

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che ancora alla fine del 2013 risultano irrisolti; purtroppo, come menzioneremo infra, l’orizzonte temporale di definitiva soluzione potrebbe slittare ancora di vari anni21.

In verità, la situazione reale della copertura a banda larga è peggiore di quanto desumibile dal grafico 1: usando un eufemismo politically correct, diremo che questi dati rappresentano una stima molto ottimistica del divario digitale infrastrutturale reale. Invero, il discorso metodologico- statistico sottostante è piuttosto complesso, e non è questa la sede per affrontarlo. Basti dire che il principale profilo di criticità è la costruzione stessa dell’indicatore DDA, che misura la percentuale di popolazione residente nelle zone non coperte da alcun tipo di reti a banda larga: né da quelle cablate (in Italia solo ADSL e, in prospettiva, VDSL) né da quelle wireless (in Italia, soprattutto rete mobile, e solo in parte marginale Wi-Max e forme minori di connettività tipo Wi-Fi e HiperLAN). Ora, il problema è che, allo stato attuale della tecnologia, come spiegato in dettaglio da Matteucci (2013, 2014b), le reti non cablate non sono un buon sostituto delle reti cablate ai fini del traffico dati a banda larga22. Nel particolare caso dell’Italia, questo giudizio si rafforza: infatti, alla luce della sua cronica mala gestione dello spettro elettromagnetico, e degli irrisolti disturbi tra usi rivali (ad es. le trasmissioni della TV terrestre o quelle militari), si registrano tuttora nel paese frequenti problemi di interferenze tra frequenze vicine e congestione di traffico superiori alla media internazionale - e quindi performance effettive in larga parte impredittibili, ex-ante.

Un caso paradigmatico è quello della banda larga su reti mobili a standard UMTS e HSPA (3G):

la capacità nominale di ogni cella trasmissiva, anche in condizioni normali, viene ripartita dinamicamente tra quegli utenti mobili che si trovano momentaneamente nel suo perimetro territoriale di captazione. In sostanza, per l’utenza business (contraddistinta dalla pluralità dei dipendenti aziendali) - ma in situazioni di traffico intenso anche per quella consumer - la performance delle reti mobili finisce frequentemente per cadere al di sotto della definizione minima di servizio di banda larga (velocità in downloading di almeno 2 Mbs)23 – specie quando gli operatori di telecomunicazioni mobili non vengono assoggettati a vincoli regolamentari24. Questo problema, seppure noto ai tecnici e quindi in teoria anche al policy-maker25, all’atto pratico spesso non viene considerato, ed esso è destinato a riproporsi, mutatis mutandis, anche rispetto alla capacità della rete mobile di fornire banda ultra larga, che solo nominalmente viene assicurata dalla

21 In particolare, anche nelle Marche, insieme ad altre quattro regioni, risultano essere all’anno zero gli interventi più difficili, cioè quelli finanziati da fondi FEASR e stanziati proprio per le aree più remote e svantaggiate - ossia quelle rurali di tipo C e D (con più bassa densità di popolazione): come evidenziato da Matteucci (2014c), a fine 2013 nessuna delle tratte preventivate era stata ancora iniziata.

22 Per un autorevole parere in questo senso, si rimanda a Noam (2011).

23 E’ curioso notare che alcune statistiche sulle performance medie delle reti mobili affermano che queste ultime si attesterebbero proprio in prossimità della soglia fatidica dei 2 Mbs; tuttavia i microdati e le metodologie sottostanti a queste statistiche non sono pubblicamente disponibili. In particolare, non è chiaro che tipo di dato e di media vengono usati, visto che la rete mobile è impiegata in larga parte con apparecchi diversi dai PC (smartphone, tablet), per cui manca un sistema di certificazione ufficiale delle performance identico a quello per l’uso da postazione fissa e su PC (cfr. https://www.misurainternet.it). Qualora fossero dati di utilizzo registrati dagli operatori, si porrebbe un tipico caso di conflitto di interesse nella trasparenza.

24 Infatti, l’incentivo unconstrained dell’operatore di rete mobile è quello di ‘far accomodare’ quanti più utenti contemporanei possibili, per evitare rifiuti di connessione e quindi mancanza di copertura. In altri termini, per l’utente medio, nel breve periodo è meglio una connessione lenta che un rifiuto di connessione.

25 Negli ultimi anni i rischi di saturazione e di compromissione dei livelli di servizio sono stati finalmente riconosciuti anche dal Presidente dell’Autorità di regolamentazione di settore, l’AGCOM, che ha constatato una sproporzione tra il boom di sviluppo dell’utenza e le capacità di espansione dell’offerta radiomobile e delle relative risorse frequenziali, dato anche il problema delle interferenze radio con bande frequenziali destinate ad altri usi (TV).

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famiglia di standard LTE (ormai di fatto considerato come la quarta generazione, o 4G)26. Come evidenzieremo infra, in questo caso all’ambiguità definitoria insita nelle metodologie statistiche di rilevazione dei costrutti tecnologici si aggiunge pure il dovere di osservanza del criterio comunitario della neutralità tecnologica (ossia, una policy di pari trattamento per tecnologie diverse) – che a parere di chi scrive in alcuni casi si rivela troppo vincolante ed in trade-off con un’Agenda digitale coraggiosa e più interventista, che faccia recuperare terreno ad un paese laggard come l’Italia.

Tenendo conto di questi problemi, qualora volessimo misurare la copertura di banda larga che nella rete di accesso consente prestazioni effettive sensibilmente al di sopra della soglia definitoria minima, e con un più ‘ragionevole’ grado di certezza, dovremmo almeno scorporare dal totale delle aree nominalmente coperte quelle coperte solo dalle reti non cablate (wireless). La tabella 1 presenta questa nuova proxy di divario digitale infrastrutturale a fine 2013, che chiameremo

“cablato” (DDC). Esso esprime appunto la percentuale di popolazione residente in ogni regione che non è coperta da offerte cablate affidabili27 di banda larga (ossia, l’ADSL di base fino a quella superiore, come l’ADSL2+) e, ove presenti, di ultra banda larga (come la VDSL, che è il principale tipo di NGN). Seppur anche il DDC rimanga una stima piuttosto ottimistica della effettiva copertura di banda larga cablata, è comunque più realistico del DDA quanto a performance effettive, muovendoci tra le proxy costruibili con dati conoscibili ex-ante e pubblicamente accessibili28. Tabella 1. Il divario digitale cablato al 2013 (DDC) – banda larga

Regioni/Aree geografiche DDC

Emilia Romagna 7,9

Friuli Venezia Giulia 17,1

Lazio 3,9

Marche 7,9

Toscana 9,3

Trentino Alto Adige 8,2

Umbria 12,1

Veneto 12,5

Italia 7,7

Centro 6,8

NEC 10,7

Legenda: Situazione a fine dicembre 2013. % di popolazione residente non coperta da alcun tipo di banda larga cablata.

Le medie di Centro e Italia sono quelle calcolate all’origine da MISE-Infratel.

Fonte: Nostre elaborazioni su dati MISE- Infratel

Come si evince dalla tabella, la situazione del divario digitale infrastrutturale usando il DDC peggiora sensibilmente rispetto alla proxy precedente. Ancora alla fine del 2013, l’assenza di banda larga nelle Marche coinvolge poco meno dell’8% della popolazione residente, a fronte di un dato

26 L’incapacità del LTE come soluzione standard di banda ultra larga viene riconosciuta come problema effettivo dal secondo rapporto Caio (cfr. Caio et al 2014) e dalla recente indagine conoscitiva di AGCM-AGCOM (2014; par. 3.5).

27 Infatti, i dati del MISE consentono di procedere ad una stima del DDC calcolandolo al netto di una quota problematica che, per vari motivi tecnici (linee lunghe, ADSL lite, apparati impedenti), non risulta – ex ante –in grado di assicurare una velocità minima di 2 Mbs.

28 Infatti, i problemi di stima della copertura effettiva non finiscono qui, in quanto vi sono altri motivi, accertabili solo ex post (in fase di richiesta di sottoscrizione dell’utente), che decurtano ulteriormente la copertura cablata misurata ex ante. Per alcuni esempi, si veda infra.

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medio nazionale anch’esso non lusinghiero, pari al 7,7%, e di una media di area del 6,8%. Che poi le Marche vadano meglio della media dell’area NEC non è molto confortante, essendo quest’ultima appesantita da regioni con orografia del territorio ben più difficile (l’arco alpino).

Giova infine ribadire che la copertura davvero effettiva (ossia quella ex-post) rimane comunque una realtà di fatto sconosciuta agli analisti esterni e allo stesso policy maker, e potrebbe essere anche parecchio inferiore a quella della tabella 1, per uno scarto variabile in base al territorio considerato: di certo, è logico aspettarsi che le aree semicentrali e rurali presentino problemi di copertura ex-post maggiori, per motivi tecnico-ambientali ad esse specifici, come pure quelle con inferiori tassi di sottoscrizione del servizio. La maggior parte di questi problemi “ex post” dipende dal grado di obsolescenza della rete in rame e dal suo carente stato di manutenzione, nonché dalla mancata disponibilità di apparati di centrale o di punto intermedio aggiornati e non saturi. Sulla prima causa anche gli operatori di rete hanno solo stime campionarie: le stesse costituiscono un vero e proprio segreto industriale che nessuno, all’infuori di Telecom Italia, in teoria dovrebbe poter conoscere. Circa la seconda causa di disservizio, la sua probabilità di occorrenza varia nel continuo, in base al variabile tasso di guasto degli apparati, alla dinamica delle sottoscrizioni e dei recessi di ciascun operatore di rete, e infine degli investimenti in nuove apparecchiature di centrale (per la BL, si tratta essenzialmente di DSLAM).

Giunti a questo punto, non dovrebbe sfuggire l’implicazione pratica dei problemi di copertura ex post: essi, oltre che non conoscibili ex ante, sono anche difficili da risolvere quando si manifestano.

Ad esempio, di fronte al caso da manuale di un disservizio in cui l’operatore privato dominante non avesse convenienza ad aggiornare o ampliare gli apparati di centrale obsoleti o sottodimensionati, nessuna autorità potrebbe ledere il perimetro della proprietà privata della di lui centrale telefonica, e l’utente in divario digitale infrastrutturale rimarrebbe senza alternative29, non essendoci tuttora un obbligo normativo di servizio pubblico universale per la banda larga. In definitiva, rimarrebbe al policy maker solo un’improbabile azione di moral suasion.

Infine, esiste un problema statistico-metodologico ulteriore che in questa sede non è possibile esplorare, ma che nondimento è rilevantissimo: i dati precedenti si basano su un modello di simulazione della copertura di tipo ex-ante – quello appunto del MISE-Infratel - che è parametrato sull’anagrafe della popolazione residente. Ora, l’implicazione più immediata è che esso non è strutturalmente concepito per cogliere il divario infrastrutturale dell’utenza business, che ha anche l’ulteriore caratteristica di distribuirsi nelle aree semicentrali, quando non rurali e periferiche del paese, come ben tipizzato dalla letteratura sul modello di sviluppo dell’area NEC: purtroppo, sono anche queste le aree del territorio dove le centrali telefoniche e gli apparati di linea rimangono più obsoleti o difettosi, anche quando le stesse centrali risultassero già collegate in fibra ottica grazie agli interventi pubblici di backhauling. Su queste aree, purtroppo, le statistiche ufficiali hanno un vero e proprio cono d’ombra, e le poche evidenze disponibili, per lo più aneddotiche (per una rassegna, si veda Matteucci 2013 e 2014b), lasciano intendere che la situazione sia molto peggiore di quella generale dell’utenza consumer commentata supra – anche a motivo delle maggiori esigenze di banda che pone l’utenza condivisa del segmento business. A titolo di esempio, basti ricordare che alcuni importanti distretti industriali ed aree a forte vocazione produttiva e di export delle Marche per lunghi anni sono stati completamente privi di connettività digitale, e solo successivamente si sono dovuti accontentare di qualche pur minima forma di banda larga; il caso

29 Stiamo supponendo che non vi siano operatori alternativi interessati ad investire nella stessa area di centrale, come frequentemente accade per le aree meno appetibili o rurali.

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più emblematico è forse quello del distretto della cappelleria di Montappone (piccolo ma fortemente internazionalizzato) e di Esanatoglia: entrambi i comuni, solo a fine 2009, grazie anche ai buoni auspici esercitati direttamente dalla Giunta regionale, hanno ottenuto per la prima volta una copertura con banda larga di tipo mobile 3G, da parte dell’OLO Vodafone30.

In sintesi, dalle precedenti cifre e considerazioni emerge come il divario digitale infrastrutturale effettivo anche nelle Marche sia ben lungi dall’essere risolto. Anche stando alle misurazioni disponibili (peraltro ottimistiche), lo stesso divario evidenza una riduzione molto modesta nell’ultimo periodo: questa inerzia, peraltro comune a molte regioni, specie dell’area NEC, è in buona parte dovuta alla complessità tecnica ma anche procedurale degli interventi pubblici sulla banda larga in Italia, e alla fisiologica bassa densità di popolazione delle aree rurali su cui gli investimenti pubblici ammissibili (e in taluni casi quelli complementari privati) esplicano i loro effetti. Peraltro, alla luce di varie considerazioni, riteniamo che la situazione di copertura effettiva proprio nelle aree semicentrali e rurali a forte vocazione produttiva (manifatturiera ma anche agroalimentare e turistica, su cui è imperniato il modello di specializzazione produttiva e di export delle Marche) sia ben peggiore di quella media regionale. Ancora, specie quando si usano proxy che colgono meglio la copertura della banda larga effettiva, emerge come le Marche siano ancora lontane, nell’anno in cui il DD doveva essere ormai superato, dal poter contare su una rete digitale ubiqua che possa supportare da subito lo switch-off dall’analogico al digitale dei servizi pubblici essenziali. Anche per la compiuta realizzazione dei target di copertura del Piano Telematico Regionale (cfr. Regione Marche, 2008), che nel 2008 molto ottimisticamente prospettava di risolvere il divario digitale di base già nel 2010 e quello della banda larga premium nel 2012 (obiettivi successivamente aggiornati, e di nuovo mancati fino ad oggi), occorre aspettare ancora. Se le stime correnti parlano di fine 2015, è indicativo dello stato delle cose che l’Italia abbia comunque chiesto una proroga alla Commissione Europea per l’impiego dei relativi fondi fino al 2017.

5. Il deficit infrastrutturale del futuro prossimo: la banda ultra larga

Purtroppo, le notizie migliori per le Marche sono già terminate con le evidenze del paragrafo precedente in quanto, passando al nuovo paradigma tecnologico della banda ultra larga, il futuro riserva in prospettiva problemi di copertura e di adeguamento tecnologico ben maggiori di quelli su cui si è finora lavorato. Infatti, il deficit infrastrutturale delle Marche, se non diverge sostanzialmente da quello medio italiano e del Centro nel caso della banda larga, peggiora drasticamente quando si va a considerare lo stato e le prospettive delle NGN.

La tabella 2 nelle due prime colonne presenta il dato della copertura regionale delle reti NGN, concentrandosi sulle due tipologie a più ampia diffusione: quelle cablate (che in Italia sono in larga parte VDSL), e quelle wireless. Circa queste ultime, abbiamo scelto di misurare la copertura della rete mobile LTE prendendo il dato del leader di mercato, il gruppo Telecom Italia-TIM, che nel 2014 detiene ancora la quota maggioritaria31. Va ribadito che abbiamo scelto di porle entrambe

30 All’epoca si trattava di una soluzione teoricamente in grado di assicurare una performance massima nominale di 14.4 Mbs in downloading, ma in pratica con le forti limitazioni già discusse supra, tipiche della rete mobile condivisa.

31 Pari al 34,5% delle schede SIM complessivamente attive in Italia, al 30 settembre 2014. Al secondo posto Vodafone, con una quota del 29,6% (cfr. AGCOM 2014). Peraltro, anche la copertura della rete cablata, pur essendo conteggiata come somma delle singole coperture degli operatori di rete (incumbent e OLO), è di fatto riconducibile a quella dello

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nella medesima tabella seguendo il requisito di velocità nominale, mentre per quello effettivo, per le considerazioni già espresse supra, solo la rete di accesso cablata in fibra ottica (totale o parziale) è considerabile propriamente banda ultra larga – almeno allo stato attuale della tecnologia32.

Risulta anzitutto che l’entità media del divario digitale infrastrutturale al 2014 in Italia è ancora molto elevata, ma solo per la rete cablata (81,4=100-18,6), mentre per la rete mobile essa è già piuttosto contenuta, essendo pari a solo il 28% (=100-72) della popolazione residente; per le Marche, il primo tipo di divario è ancor più grave (91,3% della popolazione scoperta), mentre il secondo leggermente meno grave (26%) - avendo sempre a riferimento la media del paese. Alla luce di ciò, viene da chiedersi quale sia la relazione che lega le due tipologie di copertura.

Tabella 2. Copertura e tipologie di reti NGN in Italia, al 2014

Regione Cablate Mobile LTE

(4G)

Multiplo NGN

Abruzzo 6,7 61 9,1

Basilicata 0 22 n.c.

Calabria 6,4 53 8,3

Campania 12,5 82 6,6

Emilia Romagna 25,6 79 3,1

Friuli Venezia Giulia 23,1 62 2,7

Lazio 34,2 83 2,4

Liguria 25,5 72 2,8

Lombardia 23,1 75 3,2

Marche 8,7 74 8,5

Molise 0 52 n.c.

Piemonte 13,9 66 4,7

Puglia 13,7 62 4,5

Sardegna 3,2 54 16,9

Sicilia 18,7 69 3,7

Toscana 17,5 76 4,3

Trentino Alto Adige 6,7 62,0 9,3

Umbria 11,2 76 6,8

Valle d'Aosta 0 55 n.c.

Veneto 17 82 4,8

Italia 18,6 72 3,9

Centro 17,9 77,3 4,3

NEC 15,7 73,0 4,7

Legenda: Situazione a marzo 2014 per la rete cablata (dati MISE-Infratel), e a settembre 2014 per la rete mobile LTE di Telecom Italia-TIM. 1° e 2° colonna: % di popolazione residente coperta dai rispettivi tipi di NGN: cablate (VDSL su architettura FTTC o FTTB), e mobili. Medie di area su dati regionali. 3° colonna: rapporto tra 2° e 1° colonna. n.c.=

rapporto matematicamente non calcolabile

Fonte: Nostre elaborazioni su dati MISE-Infratel e Telecom Italia-TIM.

stesso gruppo Telecom Italia-TIM. Infatti, in parte maggioritaria le coperture dei singoli OLO finora sono insistite nelle stesse aree a più alta densità di popolazione (cosiddette coperture concorrenti e sovrapposte).

32 Non è un caso che anche nelle statistiche ufficiali le due siano nettamente distinte, in ragione delle diverse prestazioni. Per un’analisi mirata sul punto, cfr. anche il cosiddetto secondo rapporto Caio (Caio et al. 2014).

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15

E’ da premettere che, su un piano logico, ci si aspetta un coefficiente di correlazione positivo tra le due forme di copertura, visto che entrambe, pur nelle loro specificità, condividono alcuni fattori socio-economici trainanti comuni; tuttavia, il coefficiente di correlazione non è molto alto: esso è proprio al limite della soglia di intensità moderata, convenzionalmente pari allo 0,7 (0,707). Emerge quindi che i due fenomeni di copertura sono sì connessi, ma con una certa variabilità interregionale (in termini più rigorosi diremo che la covarianza è sensibilmente minore del prodotto delle variabilità individuali delle due serie). Questa osservazione preliminare ci conduce ad una serie di approfondimenti che vedremo essere molto importanti per connotare il caso delle prospettive delle NGN per le Marche. Dalla stessa tabella si constata l’esplosione recente avutasi nella copertura della rete mobile LTE, e la dinamica piuttosto inerziale delle NGN cablate: infatti, nonostante la contemporaneità dei primi passi commerciali (entrambe sono state introdotte in Italia alla fine del 2012), dopo il trascorrere di pochi mesi (2014, 1Q e 3Q33) su scala nazionale la copertura media della rete mobile LTE è già pari a quattro volte tanto quella raggiunta dalle reti cablate (cfr. 72%

contro 18,6%): per brevità chiameremo questo rapporto tra le due percentuali di copertura “multiplo NGN”, evidenziandolo nella terza colonna della tabella 2. Ancora più interessante è il fatto che il multiplo NGN risulta essere più grande proprio in quelle regioni che scontano una copertura cablata inferiore alla media, raggiungendo valori molto grandi, non a caso, anche nelle Marche (dove esso raggiunge il valore 8,5): in altri termini accade che più una determinata regione è indietro con le NGN, più l’operatore dominante lì sviluppa l’infrastruttura mobile rispetto alla cablata. Se da un lato questo esito potrebbe sembrare al lettore soddisfacente (secondo la logica del “meglio poco che niente”), all’economista industriale non sfugge il forte potenziale di deterrenza all’entrata34 di questa strategia di investimento minimalista, né al policy maker accorto dovrebbero sfuggire i forti rischi che questo equilibrio di mercato provvisorio si cristallizzi nel tempo, rendendo in buona parte irreversibili i gap infrastrutturali NGN finora emersi. Come vedremo tra breve, complici anche le particolarità tecniche delle reti wireless e i vincoli delle normative sugli aiuti di stato per le comunicazioni elettroniche, i margini futuri per un intervento pubblico ambizioso potrebbero anche qui rivelarsi angusti e scoraggianti.

Facendo un passo indietro, ci chiediamo quindi: a cosa è dovuto questo divario digitale infrastrutturale NGN? Purtroppo, diversamente da quanto sostenuto nella pubblicistica più frettolosa e perfino in alcuni documenti di policy, finora il ritardo cablato italiano non è stato imputabile alle forme e ai tempi dell’intervento pubblico – che è dappertutto ancora agli inizi, a cominciare dal Sud35 – bensì al mercato, ossia alla sua concentrazione in capo ad un operatore di rete dominante36, alla situazione debitoria di Telecom Italia (che è stata messa in sicurezza da poco) e al gioco virtuoso o vizioso tra le caratteristiche tecno-economiche delle stesse reti e la struttura oro e socio-demografica delle regioni: in altri termini, lo stato attuale e prospettico della copertura delle reti NGN di tipo cablato riflette essenzialmente le condizioni idiosincratiche degli operatori

33 Va precisato che il maggiore aggiornamento (un semestre) del dato sulla rete mobile LTE non spiega se non minimamente questo forte differenziale, essendo l’evoluzione della copertura delle cablate molto lenta temporalmente.

34 In parole povere, viene sottratta base potenziale agli investitori successivi, specie a quelli che volessero impegnarsi in investimenti infrastrutturali importanti di tipo cablato, che necessitano di economie di scala e di rete molto più alte di quelle necessarie alla rete mobile.

35 Ad esempio, i dati usati nella tabella 2 non registrano ancora il risultato degli investimenti pubblici per le NGN.

Questi ultimi stanno interessando per prime alcune regioni del Sud e nel Lazio, grazie a speciali dotazioni di fondi del Piano Ultra Banda Larga, ma al 2013 non si erano ancora nemmeno espletati tutti i bandi.

36 Per un recente esame del ruolo della concorrenza inter-piattaforma nello sviluppo delle NGN nella UE si veda Briglauer et al. (2013). La stessa problematica è trattata più in generale anche in Briglauer e Gugler (2013).

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attivi nel mercato, e la connessa dinamica tra condizioni di offerta e di domanda per i pochi operatori che si cimentano nell’investimento infrastrutturale. Questa dinamica, purtroppo, fa sì che le regioni prive di aree metropolitane significative, policentriche e piccole come le Marche, di fatto siano destinate a restare a lungo trascurate dagli investimenti privati - eccettuata una manciata di comuni più grandi come Ancona, e a seguire gli altri capoluoghi di provincia e poche delle maggiori città marchigiane, che hanno tutte popolazione contenuta (in un solo caso appena superiore ai 100.000 abitanti)37 e densità bassa, per le forme di urbanizzazione non intensive prevalenti. Peraltro le Marche in questa ‘cattiva sorte’ di bassa copertura di mercato per le NGN non sono sole: infatti, Matteucci (2014b) mostra come un po’ tutto il Nord e Nord-Est d’Italia – escluse ovviamente le principali aree metropolitane – presenti una vera e propria “questione settentrionale”: questa è tanto più grave in quanto, per il particolare modello di sviluppo socio- economico del Nord-Est, il divario digitale da NGN affligge aree a forte vocazione economico- imprenditoriale (inclusi interi distretti) e la stessa PA degli enti locali, per cui già oggi la banda ultra larga è una necessità - e non più un servizio voluttuario, come magari potrebbe essere ancora per una buona parte dell’utenza consumer.

Un’ultima tipizzazione della morfologia del divario digitale delle NGN cablate – più di tipo

“estensivo” - è offerta dalla tabella 3, la quale approfondisce la diffusione territoriale della copertura guardando alla percentuale sul totale dei comuni scoperti per fallimento del mercato (in gergo tecnico, “bianchi” per le NGN, ossia in divario digitale infrastrutturale rispetto alla performance minima di 30 Mbs in downloading), in base all’ultima rilevazione Infratel disponibile (Infratel 2014). Quest’ultima chiede agli operatori con cadenza annuale lo stato della copertura e i loro piani di investimento a tre anni (fino a marzo 2017, in questo caso). In particolare, la prima colonna (% bianchi lordi) evidenzia la percentuale dei comuni scoperti, mentre la seconda (%

bianchi netti) scorpora dalla prima quei comuni il cui fallimento di mercato sarà comunque risolto da un intervento pubblico già programmato.

Tabella 3. Quota di comuni privi di NGN (“bianchi”) al 2017, senza e con intervento pubblico

Regione Bianchi lordi Bianchi netti

Emilia Romagna 85,6 85,6

Friuli Venezia Giulia 96,3 96,3

Lazio 88,9 84,7

Marche 90,4 90,4

Toscana 84 84

Trentino Alto Adige 97,3 97,3

Umbria 92,4 92,4

Veneto 89,5 89,5

Italia 93,8 82,5

Centro 88,9 87,8

NEC 90,8 90,8

Legenda: Comuni/aree classificabili come “bianchi” ai sensi delle NGN. Valori percentuali rapportati al totale dei comuni. Lordi: senza escludere i comuni che saranno oggetto di intervento pubblico da qui al 2017. Netti: escludendo questi ultimi.

Fonte: Nostre elaborazioni su dati MISE-Infratel (2014)

37 Risulta anche che dei 145 comuni italiani con più di 50.000 abitanti, le Marche ne possiedono solo 3: Ancona, Pesaro e Fano. Cfr. Bilancio demografico mensile dell’Istat, agosto 2014.

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