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Munich Personal RePEc Archive

On the relationship between economic theory and economic history

Cavalieri, Duccio

University of Florence

2002

Online at https://mpra.ub.uni-muenchen.de/44906/

MPRA Paper No. 44906, posted 13 Mar 2013 20:58 UTC

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Duccio Cavalieri (Università di Firenze)

TEORIA E STORIA ECONOMICA

NEL PENSIERO DI UN MARXISTA CRITICO: CLAUDIO NAPOLEONI

1. Non so se gli amici della “Rivista di storia economica” siano disposti a riconoscere a Claudio Napoleoni titoli di merito sufficienti per essere tenuto presente in questo dibattito sul ruolo della storia economica nel pensiero dei grandi economisti. Io stesso, pur essendomi occupato a lungo della sua opera, non saprei dire se e in qual senso egli sia stato un grande economista. Nello svolgimento della sua attività scientifica, Napoleoni non ha infatti optato decisamente per il contesto della scoperta teorica. Non si è cioè dedicato a un raffinamento formale delle tecniche dell’analisi economica; né ha scritto astrusi contributi destinati a essere letti da una ristretta cerchia di specialisti. Non ha inoltre coltivato la ricerca empirica, che rispetto a quella teorica appare più strettamente legata alla storia dei fatti economici.

Claudio Napoleoni si è in realtà proposto di fare qualcosa di molto diverso. Ha cercato di fondare filosoficamente e criticamente il discorso economico, per conferirgli un senso di orientamento e di direzione. Si è chiesto quale funzione dovrebbe assolvere la teoria economica e quale rilevanza si possa oggi riconoscerle. Si è cioè occupato di significati, di motivi e di valori.

Tutte cose cui la società odierna non sembra attribuire molta importanza.

2. Direi che non ci si possa proporre di ricostruire la personalità di Napoleoni – la sua figura umana, di moderno apostolo sociale, e quella scientifica, di economista e di storico del pensiero economico –senza partire dai due grandi sistemi di valori tendenti all’emancipazione dell’uomo e all’edificazione di un nuovo tipo di società che confluivano nella sua concezione della vita: il comunismo e il cristianesimo. Un comunismo inteso nella sua accezione più idealizzata e utopistica, quella che mira a costruire una società senza classi. E un cristianesimo primitivo ed essenziale, evangelico e non dogmatico. Napoleoni riteneva che questi due sistemi di valori fossero capaci, assieme, di conferire un senso progettuale compiuto alla nostra esistenza. Li considerava mutuamente compatibili, perché ispirati ad analoghi princìpi civili e morali: di uguaglianza naturale, giustizia sociale e solidarietà umana.

Da marxista critico ed eterodosso, che si interrogava sul destino dell’uomo nella società capitalistica, Napoleoni ha mostrato una non comune capacità di cogliere il senso ultimo e più autentico del cristianesimo, quello per il quale ogni uomo di buona volontà “non può non dirsi cristiano”. Ma non ha per questo rinunciato a essere un comunista. Ossia a intendere la politica come un processo di liberazione da una realtà oppressiva.

Comunismo e cristianesimo gli apparivano come due diverse ideologie rispondenti a istanze di etica comunitaria molto simili, perché ugualmente finalizzate alla liberazione e alla valorizzazione dell’uomo. Obiettivi sui quali egli riteneva che fosse utile avviare un dialogo anche tra il marxismo e la moderna filosofia dell’essenza e dell’esistenza.

3. Napoleoni non ha lasciato alcuno scritto che tocchi direttamente il tema del rapporto tra teoria e storia economica. A differenza di altri studiosi marxisti e dello stesso Marx, egli non si è occupato specificamente di storia economica. Penso che si possa tuttavia cercare di ricostruire il suo pensiero su questo tema partendo dalla sua interpretazione del capitalismo come sistema storicamente determinato. Un sistema che egli riteneva operasse “nell’orizzonte ristretto della produzione di valori di scambio” e che, così com’era nato, prima o poi sarebbe morto.

Tali espressioni sono già sufficienti a farci capire che Napoleoni non concepiva il capitalismo come un necessario presupposto dell’analisi economica, ma come un problema aperto, un fenomeno complesso che attende ancora di essere pienamente spiegato, se si vuole interpretare correttamente

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stabilire se un giorno possa o meno essere superato, operando un “trascendimento” storico che consenta di liberare il lavoro dalla soggezione al capitale e di riaffermare l’originaria “positività del finito”.

Questo particolare modo di intendere il capitalismo – e con esso la scienza economica, che ne ha fatto il proprio principale oggetto di studio – era in linea con due idee di fondo di Napoleoni:

1) quella che l’economia politica sia una disciplina ad un tempo teoretica e storica – un sistema di princìpi volti a spiegare dei fatti, astraendo dalle loro caratteristiche particolari e accidentali e utilizzando schemi che non possono rimanere immutabili nello spazio e nel tempo, come in una scienza naturale, ma devono seguire l’evolversi della realtà economica;

2) quella che la critica marxiana dell’economia politica borghese condivida questa impostazione e che una ripresa di tale critica implichi un rifiuto dell’antistorica idea che i soggetti economici, posti di fronte ad analoghe circostanze di fatto, si comportino sempre allo stesso modo. Cioè un rifiuto del mito, naturalistico e sostanzialmente deterministico, di una scienza economica

“pura”, le cui leggi abbiano la stessa precisione di quelle della fisica.

Per Napoleoni, l’economia politica, intesa come storia ragionata di un certo tipo di attività dell’uomo – che per sua natura tende a evidenziare nel proprio comportamento un miscuglio di razionalità e di passionalità istintiva – non avrebbe mai potuto avere lo stesso grado di fondatezza e di prevedibilità delle scienze che si occupano dei fenomeni naturali.

4. Per quanto riguarda la storia economica, Napoleoni riteneva che essa dovesse essere studiata attentamente dagli economisti. Ma non tanto per l’esigenza di ricostruire minuziosamente degli specifici fatti storici, quanto per la capacità della storia economica di fornire dei punti di riferimento necessari a cogliere i principali caratteri strutturali e le grandi trasformazioni diacroniche che hanno luogo in una società in evoluzione. Cioè perché essa rappresenta un importante capitolo della storia generale delle istituzioni.

Direi che a una storia economica intesa come pura e semplice storia dei fatti economici Napoleoni preferisse una diversa disciplina, più generica e più vicina all’economia politica: quella che analizza la dimensione storico-istituzionale della struttura economica e che viene talvolta indicata come “economia storica”. Non si sentiva infatti attratto dall’eccessivo fattualismo che ancora oggi si riscontra in larga parte degli studi di storia economica. Né dall’economicismo della new economic history, che assume che la teoria economica debba sottendere necessariamente ogni analisi storica. Così come non mostrava di apprezzare particolarmente l’elevato grado di tecnicismo formale, non sempre giustificato da reali esigenze conoscitive, che caratterizza buona parte della scienza economica contemporanea.

5. Nei confronti del capitalismo, Napoleoni era animato da convinzioni contrastanti. In linea di principio, ne riconosceva appieno la tendenza a promuovere uno sviluppo delle forze produttive, attivando tra di esse una concorrenza dinamica. Non aveva quindi alcuna difficoltà ad ammettere che l’efficienza e la capacità di promuovere il progresso tecnico e valorizzare le forze produttive erano due titoli storici di merito del capitalismo. Ma dubitava dell’effettiva capacità della concorrenza tra le imprese capitalistiche di promuovere nell’attuale era postindustriale l’efficienza del sistema, senza generare un disgregamento della vita sociale, come risultato di un’innaturale duplice “separazione”: quella del lavoro dai bisogni più autentici dell’uomo e quella del consumo dalla produzione.

Su un piano più filosofico, Napoleoni attribuiva al capitalismo il merito del “disvelamento”

dell’identità di fondo tra l’attività produttiva che tende a raggiungere un fine esterno, configurandosi come azione morale, e l’agire pratico che trova in se stesso il proprio fine ultimo, perché è considerato a prescindere dalle intenzioni che lo muovono. Egli riteneva che il compito storico del capitalismo, non ancora esaurito, fosse quello di eliminare ogni distinzione tra poiesi e prassi, riducendo il fine dell’agire al prodotto dell’azione.

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6. Alla storia economica, credo che Napoleoni guardasse essenzialmente per due motivi. Il primo era quello di utilizzarla alla maniera di Schumpeter, come disciplina ausiliaria dell’analisi economica, per comprendere meglio la natura di alcuni sistemi-tipo: da quello mercantile semplice, al capitalismo “puro” dell’epoca classica e a quello successivo delle grandi imprese oligopolistiche, fino alla società postindustriale dei nostri giorni. Sistemi assai diversi tra loro, per vari aspetti – lo stadio di sviluppo delle forze produttive e dei metodi di produzione, il meccanismo di distribuzione del prodotto sociale, la sequenza dello scambio tra merci e denaro – ma connessi dal sottile filo rosso della storia.

Sotto questo profilo, la storia economica è importante per gli economisti, nella misura in cui permette di costruire e verificare empiricamente la teoria economica. La quale in genere non si sviluppa per una subitanea intuizione di chi la pratica, ma procede gradualmente e in modo iterativo. Ossia con continui passaggi dall’osservazione dei dati dell’esperienza, che non parlano da soli, all’astrazione, cioè alla fase del ragionamento deduttivo, che consente di formulare in base a tali dati, delle ipotesi di lavoro. Poi lo stesso processo si ripete, ma va in senso opposto, con il passaggio dall’astrazione all’osservazione empirica, che la può confermare o respingere.

Un secondo motivo di interesse di Napoleoni per la storia economica era costituito dal suo desiderio di cogliere il nesso tra la stabilità sostanziale dell’ordinamento strutturale dell’economia e la sua inevitabile trasformazione storica. Lo interessavano cioè la spiegazione della molteplicità delle forme storiche delle relazioni economiche (la marshalliana ricerca dell’uno nel molteplice) e l’eterno problema del mutamento strutturale. Come Marx, Napoleoni pensava che una larga parte della scienza economica borghese commettesse l’errore di ridurre le categorie economiche alle loro sole determinazioni generiche, con il risultato di riguardare come naturali, eterne e immutabili le forme da esse storicamente assunte nel sistema capitalistico. Il rimedio, a suo avviso, non poteva consistere che in una maggiore attenzione che gli economisti avrebbero dovuto dedicare alla storia economica. Rinunciando all’idea di cercare in essa semplicemente un sostegno empirico alle proprie concezioni teoriche.

7. Di Marx Napoleoni condivideva la tendenza ad attribuire natura dialettica ai rapporti tra le relazioni economiche, sostanzialmente riconducibili a una forma logica generale, perché regolate da leggi di coerenza interna, e le relazioni che definiscono i rapporti sociali tra gli uomini, viste come assai più articolate e mutevoli. Non parlerei, tuttavia, di materialismo dialettico, o storico, o di interpretazione economica della storia, ma di semplice storicismo. Napoleoni era infatti nettamente alieno da ogni forma di economicismo. Considerava l’economicismo un’ideologia falsa e pericolosa, disumanizzante e antistoricistica. Un’ideologia che, nella misura in cui proponeva un’interpretazione economica della storia, finiva coll’assecondare la sussunzione reale del lavoro al capitale, inducendo gli uomini a lavorare di più, solo per guadagnare di più e consumare di più. E che impediva quindi la realizzazione della vera essenza dell’uomo, spingendolo a riconoscersi in ciò che possedeva, piuttosto che in ciò che effettivamente era.

Per il loro economicismo, tanto la scienza economica borghese quanto quella marxista erano ritenute da Napoleoni incapaci di conferire un significato pregnante e socialmente utile alla condizione umana. Ossia incapaci di tornare a quell'umanesimo originario di cui, a suo avviso, si era ormai persa quasi ogni traccia, ma che egli continuava a considerare assolutamente necessario, dato che l’uomo non vive di solo pane.

8. Per umanizzare l’economia, Napoleoni pensava che si dovesse ridurre l’attenzione dedicata alla sfera dei rapporti economici e dare più rilievo a quella dei cosiddetti “beni relazionali”, che comprendono il senso di identità collettiva, o di gruppo, e il consenso sociale che deriva dal perseguimento disinteressato di finalità generali.

Come per il “primo” Marx, quello dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, l’umanesimo era per Napoleoni la condizione ideale, la vera “meta della storia”. Mentre il comunismo era un

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compiuta, ma solo l’inizio, il cominciamento, dell’umanesimo positivo. Ossia un semplice punto di passaggio sulla strada che avrebbe condotto al “regno della libertà”.

Napoleoni non era quindi disposto ad accettare la concezione materialistica della storia sostenuta dal Marx più maturo (il Marx economista). La rifiutava non tanto come ipotesi di spiegazione del mutamento storico reale, quanto come filosofia di un’evoluzione futura della società. E dunque come base di una scienza generale della trasformazione sociale (il materialismo dialettico).

9. Quello di Napoleoni era dunque un marxismo sui generis, umanisticamente e storicisticamente inteso. Un marxismo critico e non dogmatico, fondato sull’idea che i dati dell’esperienza economica non parlino da soli, ma vadano interpretati con un preciso criterio ermeneutico, formulando delle ipotesi di lavoro che permettano di far emergere dalla loro massa informe delle spiegazioni convincenti del mutamento economico e sociale.

Per definire meglio la posizione metodologica assunta da Napoleoni su questo punto, penso che possa essere utile richiamare anche un termine di riferimento a contrario: la visione del problema dell’etnologo francese Claude Lévi-Strauss, il padre della moderna antropologia strutturale, che sosteneva che per raggiungere il reale bisogna ripudiare il particolare e il contingente (cioè il vissuto soggettivo). E che, in un’ottica dichiaratamente funzionalistica, attribuiva alla storia solo il compito di “fornire i materiali” occorrenti per la costituzione dei sistemi.

Si trattava di una concezione antistoricistica e antisoggettivistica che annullava l’uomo, ritenuto incapace di autodeterminarsi come soggetto e ridotto a un semplice punto di incrocio di un insieme di strutture che si intersecano. Il risultato era una sorta di “filosofia senza l’uomo”, in cui la storia finiva coll’assumere un carattere del tutto casuale e la dimensione sincronica tendeva a prevalere nettamente su quella diacronica.

Si noti che a questa visione del problema non erano rimasti indifferenti alcuni illustri pensatori marxisti, come il filosofo Louis Althusser, che riteneva che la struttura della società predetermini la forma di ogni espressione dell’attività soggettiva dell’uomo e respingeva l’idea di un umanesimo socialista. Arrivando a sostenere che non esiste una storia in generale (come non esiste una produzione in generale), ma solo delle “strutture specifiche di storicità”.

10. Per la loro affermazione di una priorità del sistema organizzativo sull’uomo, gli strutturalisti marxisti sono entrati in polemica negli anni ’60 con altri studiosi marxisti, più sensibili ai richiami dell’umanesimo filosofico e poco disposti a riconoscere la priorità di un linguaggio su chi ne fa uso per esprimersi. Ricorderò, al riguardo, due soli nomi: quello del filosofo esistenzialista Jean-Paul Sartre, che riteneva che struttura e storia non fossero due aspetti distinti della realtà sociale, estranei l’uno all’altro, ma rappresentassero due elementi inscindibili per una conoscenza totalitaria del mondo reale; e quello di un altro maître à penser della sinistra francese, Roger Garaudy, secondo il quale, nonostante la complessità delle mediazioni sovrastrutturali, il reale non è sovradeterminato, ma la pratica umana è una sola (e la sua dialettica costituisce “il motore della storia”).

Pur restando indeterministica, la storia perde in tal modo quel carattere di “cecità” che le viene frequentemente attribuito e diventa coerente con la struttura. La scissione tra analisi funzionale e analisi genetica della struttura economica può così ricomporsi. Ma tra le due resta una netta distinzione di ruoli. All’analisi funzionale è attribuito il compito di chiarire i rapporti tra la struttura economica e le sue parti, nonché tra i vari livelli gerarchicamente ordinati della struttura. Mentre all’analisi genetica si chiede di spiegare le trasformazioni della struttura economica.

Così intesa, la struttura può essere vista come un’importante garanzia di stabilità nei confronti delle trasformazioni continuamente imposte dalla storia. L’una rappresenta la permanenza tendenziale di un ordine sincronico, poco soggetto a mutamenti di rilievo. L’altra il cambiamento, il divenire, la capacità di generare continuamente nuove contraddizioni, destinate a risolversi dialetticamente in un equilibrio diacronico di ordine superiore.

11. Napoleoni non ha mai ceduto alla tentazione di concepire la scienza economica in termini

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naturalistici e astorici, come un insieme di leggi di validità universale. O come una pura tecnica di gestione efficiente in situazioni di scarsità, implicanti una continua lotta tra l’uomo, con i suoi molteplici bisogni da soddisfare, e una natura avara, che gli pone dei limiti. Come Marx, Napoleoni pensava che il reale comprendesse natura e storia e che nulla nella realtà potesse avere vita storica senza intrattenere al tempo stesso un rapporto con la natura. Per questo, ritengo che egli non avrebbe condiviso né la tesi dell’esistenza di un nesso logico unidirezionale che muova dalla teoria alla storia economica, né la tesi che postula la sequenza opposta, che va dalla storia dell’economia alla teoria economica.

12. Come tutti coloro che affrontano il problema dei fini e dei criteri analitici della conoscenza economica, Napoleoni era consapevole della necessità di prospettarsi un’ipotesi esplicativa della genesi ideale del fenomeno economico. Cioè una filosofia dell’economia, o della prassi economica, che fornisse un criterio interpretativo con cui vagliare gli elementi di conoscenza offerti dall’esperienza diretta e dalla storia.

A questo scopo, egli tendeva a ricondurre la struttura di ogni sistema economico a una forma logica generale, risultante da un complesso di rapporti necessari e coerenti, che si mantengono costanti al variare delle condizioni relative ai termini tra i quali intercorrono. Rapporti che egli riteneva prendessero in concreto la duplice forma di relazioni naturali (le relazioni materiali tra l’uomo e la natura, fondamentali nei sistemi economici primitivi, ove si producono semplici valori d’uso) e di relazioni sociali tra l’uomo e l’uomo (di produzione, di distribuzione e di scambio). Col trascorrere del tempo, il rapporto tra l’uomo e la natura avrebbe teso a passare in secondo piano.

Così da dare maggiore spazio ai rapporti tra le classi sociali.

13. L’antropologia filosofica di Napoleoni esprimeva un suo bisogno profondo: quello di giustificare razionalmente le valutazioni morali che dovrebbero informare le scelte economiche dell’uomo. Le domande che egli si poneva erano le più semplici e fondamentali. Ma anche le più ardue. Perché vertevano sull’essenza della natura umana e sul significato filosofico delle cose.

Egli si chiedeva se fosse giusta una società che finalizzava ogni attività economica dei suoi componenti all’accrescimento senza limiti della propria ricchezza personale e del proprio benessere materiale. Anche a costo di porre in atto situazioni di dominio sugli altri. O se ogni individuo, una volta conseguita la disponibilità di ciò che gli era realmente necessario, non dovesse piuttosto rinunciare ad accumulare ulteriori ricchezze e lasciare che anche gli altri potessero disporre di quanto loro occorreva. Riconoscendo in tal modo implicitamente il proprio prossimo come un fine, anziché come un mezzo.

Napoleoni pensava che la via della salvezza passasse per una nuova antropologia, implicante un ritorno all'uomo. Ma a un uomo diverso, inteso non più come prestatore di lavoro e oggetto di dominio del capitale, ma come soggetto cui fanno capo ineludibili legami con il mondo della natura e con il proprio prossimo (l'uomo come "nodo di relazioni", "l'altro come tuo primo bisogno").

L'individuazione di questo imprescindibile compito storico ("nella storia c'è salvezza") era legata ad altri due grandi temi presenti nella riflessione di Napoleoni, ai quali ho già accennato: la critica della vecchia tesi marxiana della centralità dell’economico e l’aspirazione a costruire una società i cui valori fondanti non fossero decisi unicamente dal mercato.

Era evidente in Napoleoni l’idea che ogni aumento della capacità di amministrare la scienza e la tecnica tendesse in ultima analisi ad accrescere il potere di dominio del capitale. Un capitale visto come un’entità dispotica e totalizzante, cui egli attribuiva la capacità di imporre a tutti gli uomini la dura legge liberticida dell’omologazione. Con il risultato di sopprimere ogni specificità culturale e di sostituire al particolare e al molteplice un solo modo di produrre e di consumare, di vivere e di pensare. Ossia di ridurre l’uomo a un’unica dimensione.

14. Si tenga presente che Napoleoni era più interessato alla storia delle idee che non a quella dei

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concezioni teoriche e di problemi, piuttosto che di opere e di autori. La sua attenzione storico-critica si volgeva ai significati e agli sviluppi interni dell'analisi teorica, più che ad elementi di conoscenza di carattere sociologico o biografico (il contesto ambientale, il "vissuto", la diffusione e l'istituzionalizzazione del sapere economico).

Quella che egli aveva in mente era una storia viva delle idee economiche, un’"historia maior", fatta dei grandi problemi posti all'uomo dall’evoluzione storica del mondo reale e di concezioni teoriche capaci di fornire a tali problemi delle risposte rilevanti. Ossia una storia del pensiero economico rigorosamente circoscritta ai contenuti teorici. Non la storia minore di singole categorie analitiche, o di opere e autori di scarso rilievo, incapaci di prospettare una sintesi unitaria e coerente del funzionamento del sistema economico.

15. Come molti economisti teorici che coltivano degli interessi storico-critici, Napoleoni muoveva dal passato ma era naturalmente proteso verso il futuro. Questo lo induceva a fare talvolta un uso attualizzante della storia del pensiero economico. Ossia a leggerla come una storia decontestualizzata dell’analisi economica, capace di fornire un utile punto di approccio allo studio delle grandi questioni del presente.

Per questo motivo la sua attività storico-critica non è stata sufficientemente apprezzata da alcuni storici puri del pensiero economico, più interessati a ricostruire minuziosamente la “storia esterna”

che a cogliere i grandi sviluppi della “storia interna” delle idee.

L'economia politica di Napoleoni era in effetti un universo senza frontiere, un sistema di conoscenze ancora largamente da costruire e che non si esauriva in certi contenuti specifici. Ne emergeva una concezione della scienza economica che abbracciava anche la sua storia, la sua critica, la continua ricerca delle sue ulteriori possibilità e dei suoi limiti gnoseologici. E che lo spingeva a superare di continuo sul piano dialettico le proprie stesse posizioni teoriche, incurante di esporsi ai rilievi critici di chi pretenderebbe che un autore rinunci ad ogni capacità di rinnovarsi per restare sempre fedele a un proprio stereotipo personale.

16. Un significativo esempio di questa capacità di Napoleoni di operare una revisione critica dei propri stessi giudizi è fornito dalla sua graduale presa di distanza dalla reinterpretazione sraffiana della storia dell'economia politica in termini di difetti correggibili delle teorie classica e marxiana e di errori irrimediabili della teoria neoclassica. Posto di fronte alla scelta tra l’immagine del processo economico storicamente significativa ma logicamente insostenibile, perché fondata su una teoria del valore palesemente erronea, avanzata dagli economisti classici e da Marx, e la diversa immagine delineata da Sraffa, logicamente più rigorosa (sia pure nell’ambito di certe discutibili assunzioni limitatrici), ma storicamente muta, perché incapace di chiarire l’origine del sovrappiù e la distribuzione sociale del reddito, Napoleoni non aveva nascosto una sua netta preferenza per la prima.

Un secondo importante esempio dello spirito autocritico di Napoleoni è dato dal suo mutato giudizio sulla concezione neoclassica del processo economico. Una concezione che in un primo tempo egli aveva respinto, ritenendola logicamente viziata dall'impossibilità di determinare il saggio di profitto uniforme implicato in equilibrio di lungo periodo dal sistema, attribuendo al capitale la natura di una sostanza omogenea. Ma che in seguito era giunto a indicare, altrettanto discutibilmente, come "un'opzione possibile" nella ricerca di una risposta al problema del modo di formazione del sovrappiù del sistema.

17. Per concludere, direi che, posto di fronte al tema di questo dibattito, Napoleoni avrebbe rifiutato sia l’idea di un nesso unidirezionale che muova dalla teoria alla storia economica, sia quella opposta, secondo cui nessuna teoria potrebbe essere formulata se non elaborando i materiali forniti dalla storia. Egli non avrebbe cioè accolto la tesi di un rapporto di dipendenza di una delle due discipline rispetto all’altra. Riteneva che tra di esse vi fosse una connessione reciproca.

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Nell’ambito di tale rapporto, la storia economica gli appariva chiamata a svolgere una duplice funzione. Essa avrebbe dovuto dapprima suggerire alla teoria lo studio di specifici problemi ed essere poi di aiuto nel valutare il grado di accettabilità delle risposte date dagli economisti agli interrogativi sollevati. Ma tali risposte sarebbero state comunque da accogliere con cautela, perché avrebbero potuto essere influenzate da visioni del mondo di tipo preanalitico.

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